Capitolo VIII
IL PARLAMENTO CONTRO LA CORONA
Giacomo I
I Tudor governarono lo
stato senza una vera opposizione. La guerra civile delle due rose aveva
distrutto, una volta per tutte, insieme alla classe, il potere che i nobili
avevano esercitato sul governo nel passato. La Chiesa era stata sottomessa
con l'Atto di Supremazia. I Comuni divennero lo strumento di governo della
corona, i cui interessi la rendevano una naturale alleata dell'emergente
classe borghese (1). Ciò nonostante, i Tudor non cercarono mai di instaurare un
assolutismo teorico. Anche se nella pratica esercitarono un potere illimitato,
quasi assoluto, questo potere era di natura politica. Essi sentivano di far
parte di un corpo politico (2), i cui rappresentanti sedevano nel parlamento
ed erano coscienti che i loro atti assumevano valore legale solo quando ricevevano
la sanzione delle due Camere, le quali avevano acquisito il diritto-potere di
modificarli o rigettarli, senza che per questo la corona avesse a sentirsi
diminuita nel suo potere o nel suo prestigio.
Per gli Stuart era diverso. Dove i Tudor cercarono
la sostanza, essi volevano la forma. Mentre i Tudor erano soddisfatti del
risultato pratico, essi esigevano il rispetto della costruzione teorica.. Essi
si sentivano investiti dì un potere che derivava dìrettament da Dio. « Ma
fondare la politica sulla teologia è oltremodo pericoloso. Un re teocratico
non può cedere mai; concessioni e accomodamenti che renderebbero più facile il
corso della politica sono negati ad un re che si crede portavoce
dell'inalterabile volontà di
Dio » (3).
Elisabetta, nel 1601, potè cedere senza
pericolo sulla questione dei monopoli, dopo aver difeso per oltre un trentennio
il suo potere prerogativo in questo campo, facendo proprio il punto di vista
del parlamento, prima che questi iniziasse la procedura per l'approvazione di
uno statuto (come era fortemente intenzionato a fare) che limitasse, o quanto
meno regolasse, la sua prerogativa di concedere patenti di monopolio nelle
attività commerciali (4). « Essa si rese conto che era necessario fare una
concessione alla nazione; ed essa la fece senza rancore; non tardiva; non come
un contratto di compravendita; in breve non come l'avrebbe fatta Carlo I, ma la
fece subìto e dì buonanimo » (5).
Questa sua mossa non solo le evitò di
entrare in conflitto aperto col parlamento, ma le procurò anche la riconoscenza
delle Camere, della nazione e il suo prestigio ne risultò aumentato. Gli
Stuart, che saranno portatori di una nuova concezione del potere reale, non
potranno cedere quando la situazione politica lo consiglierà e questo
provocherà la loro rovina. « E' ateo e blasfemo », dirà Giacomo I in un
discorso alla Camera Stellata nel 1616, « mettere in discussione ciò che Dio
fa; il buon cristiano si accontenta della sua verità rivelata nel suo verbo:
nello stesso modo è presuntuoso e oltraggioso che un suddito metta in discussione
ciò che un re fa, o dire che il re può fare questo o quello ».
Giacomo VI, re di Scozia,
qualche anno prima di salire al trono d'Inghilterra, aveva scritto un libro
sulla natura delle monarchie. La tesì sostenuta in questo lìbro « ci ricorda
la teoria politica di Bodin, secondo la quale il monarca era legibus solutus e
poteva legiferare liberamente in tutti i campi, eccetto in quello previsto
dalla Legge Salica in Francia, che regolava la successione al trono » (6). Gli
avvenimenti che lo porteranno sul trono inglese sembrano essere una verifica
concreta ed ineluttabile di questa teoria di Bodin, pubblicata per la prima
volta nel 1576.
Egli discendeva direttamente da Enrico VII
per via di madre, ma il suo diritto alla successione inglese non era stato mai
certo. Enrico VIII, nel 1536, aveva fatto approvare dal parlamento un Atto di
Successione (riapprovato, emendato, nel 1544) con il quale gli si conferiva il potere di disporre del
trono per testamento e nel suo
testamento aveva previsto che in mancanza dì eredi diretti dei suol figli
(Edoardo, Maria, Elisabetta), la corona andasse agli eredi di sua sorella
minore Maria, duchessa di Suffolk, « posponendo, così, i discendenti di sua
sorella maggiore Margherita, regina di Scozia » (7).
Elisabetta, per tutto il suo regno, non
volle sentire parlare di successione, malgrado il parlamento la premesse in
questo senso. Il rifiuto della regina creò un clima di incertezza e di
preoccupazione che sfociò in un'aperta polemica - nonostante una legge lo
vietasse - sul problema di chi dovesse succedere al trono d'Inghilterra alla
sua morte.
La linea Suffolk - indicata da Enrico nel
suo testamento», veniva esclusa perchè il suo ultimo discendente non veniva
considerato figlio legittimo. Il diritto di Giacomo VI, re di Scozia, era
messo in discussione in quanto egli era uno straniero e il diritto comune
vietava agli stranieri di ereditare; nello stesso tempo era stato escluso
esplicitamente dal testamento di Enrico VIII. A favore di Giacomo, tuttavia,
venivano portati due argomenti: prímo, il suo diritto di discendente faceva
giustizia del fatto che fosse uno straniero; secondo, « il suo diritto al trono
derivava da una fonte più alta di quella di una legge del parlamento » (8): il
testamento di Enrico non aveva alcun valore (9). « Dio gli aveva dato, in
quanto prossimo alla successione, un inalienabile Diritto Divino. Così la
dottrina del diritto divino nacque come la sola risposta valida per controbattere
la tesi dei cattolici romani che mettevano in discussione il diritto al trono
di Giacomo I... E non ci volle molto perchè la dottrina del Diritto Divino
dell'ereditarietà si trasferisse alla dottrina del potere assoluto e del
diritto prerogativo eccezionale. Se il re succedeva al trono per diritto
divino, egli derivava il suo potere da Dio, e perciò disubbidirgli era
disubbidire alla legge di Dio » (10).
Questo era un modo nuovo di intendere la
natura del potere in Inghilterra, ma era molto comune sul continente, dove
vigeva il diritto di origine romana. In Inghilterra il successo del diritto
comune era stata una risposta originale al diritto romano che, nella sua
interpretazione tardo-imperiale e medievale, era portatore di una concezione
assolutistica del potere, la quale poneva il sovrano al di fuori e al di sopra
della legge (11).
Ai sovrani inglesi, comunque, il diritto
comune riconosceva l'esercizio di alcune prerogative che li poneva sullo stesso
piano della legge, ma non al di sopra e al di fuori di essa. La capacità di
regolare il commercio con propri decreti; la capacità di emettere proclami che
avevano valore di legge ogni qualvolta il re ne ravvisava la necessità ed era
impossibile aspettare l'approvazione di una legge regolare, o semplicemente
quando egli ne ravvisava l'urgenza (12); la capacità di regolamentare alcuni
aspetti della vita religiosa, erano tutte prerogative di cui i Tudor avevano
goduto. Il loro potere prerogativo era molto ampio, proprio perchè essi ebbero
il buon senso di non definirne la natura.
« In breve, la
prerogativa reale dei Tudor era una branca della legge che conferiva al re
alcuni diritti necessari, non godibili dai sudditi. Gli Stuart consideravano la
loro prerogativa in modo diverso: per essi essa comprendeva quei diritti di cui
Dio li aveva investiti e di cui dovevano rispondere a Dio solo. La loro prerogativa
non era una branca della legge; essa era al di fuori della legge, e persino al
di sopra e contro di essa. Come ha spiegato Smith, legibus solutus, per i Tudor
significava il diritto di non osservare la legge se il criterio di equità lo
richiedeva, un necessario potere di flessibilità; per gli Stuart significava
vero assolutismo - libertà di non osservare la legge, perchè essa era al di
sotto del re » (13).
Era naturale che una simile concezione del
potere si scontrasse con la fiera ostilità del parlamento. « Fin qui tutti
avevano accettato la dottrina medievale che il re non poteva governare il suo
popolo se non con la legge che esso stesso aveva approvato... Ma nessuno
l'aveva analizzata, o aveva messo in evidenza tutte le sue implicazioni
dettagliatamente. Se questa era la legge fondamentale dell'Inghilterra,
proveniva dal buio dell'antichità o dall'indulgenza dei re precedenti? Era essa
il diritto inalienabile degli inglesi o era una concessione che poteva essere
revocata? Il re era soggetto alla legge o non lo era? E chi stabiliva che cosa
era la legge? La maggior parte del XVII secolo [sarà] spesa nella ricerca di
risposte - storiche, legali, teoriche - a queste domande » (14).
Il primo problema che Giacomo I si trovò
davanti, alla sua ascesa al trono, fu quello religioso. La soluzione
elisabettiana era stata accettata da tutta la nazione, ma non tutti ne erano
soddisfatti. Una parte voleva spingersi oltre sulla strada del protestantesimo
e, nell'immediato, chiedeva delle riforme nella vita della chiesa, che in
apparenza non ne mutavano la natura, ma - in realtà - avrebbero provocato un
certo sconvolgimento.
Sotto Elisabetta questo partito si era fatto
piuttoso consistente, specialmente negli ultimi anni del regno, ma la regina si
dimostrò sempre irremovibile nella sua determinazione di conservare il
compromesso anglicano. Per difenderlo si era avvalsa del potere prerogativo per emettere alcuni
proclami che mettevano al bando (15) alcune sette che si andavano formando.
Alla sua morte il problema era fortemente sentito negli strati inferiori della
chiesa e nella parte più cosciente della borghesia. Ma esso non venne alla
ribalta, con quella virulenza che conoscerà negli anni futuri perchè si era
creata l'aspettativa di un sovrano - Giacomo I - che era stato allevato (16)
nella fede presbiteriana e che certamente non sarebbe stato insensibile al
grido di dolore che proveniva dal basso.
Con questa speranza, mille ministri del
culto gli presentarono - durante il suo trasferimento dalla nativa Scozia alle
sale del trono d'Inghilterra - una Petizione Millenaria (dal numero dei
presentatori), con la quale si chiedevano le sospirate riforme (17). Ma i piani
del re erano differenti. Egli aveva un'opinione molto precisa sul governo
presbiteriano della chiesa, con il quale era entrato in conflitto e dal quale
era stato sconfitto nella natia Scozia, la cui Kirk gli aveva imposto «nel 1581
la cosiddetta "Confessione negativa" in cui venivano respinte ogni
religione e ogni dottrina che fossero in contrasto con la Confessio Scotica.
Egli tendeva ad un sistema episcopale, con diritto di nomina da parte della
corona; sembrandogli questa l'unica possibilità di conservare il potere »
(18). Egli riteneva, non ha torto, che il presbiterianesimo avesse una natura
repubblicana che mal si conciliava con la struttura piramidale e gerarchica del
potere monarchico.
« Egli era convinto che
la gerarchia [ecclesiastica] fosse il migliore sostegno della corona e che dove
non c'erano vescovi presto non ci sarebbero stati re. Egli era quindi
determinato a non fare la più piccola concessione ai non conformisti...
L'antipatia dichiarata di Giacomo per ogni forma di non conformismo protestante
si fondava su un calcolo politico piuttosto che religioso » (19).
Tuttavia, nel gennaio del 1604, egli
convocò una conferenza per discutere il problema e sentire le richieste dei
presentatori della Petizione. Dopo averli sentiti, Giacomo affermò la sua
decisa volontà di mantenere la struttura episcopale della chiesa anglicana e
rigettò le proposte dei riformatori, eccetto quella di apportare « qualche
lieve modifica al libro della preghiera comune » (20) e di promulgare una
traduzione autorizzata della bibbia.
« Subito dopo il re emise
un proclama con cui ordinò agli ufficiali, civili ed ecclesiastici, di fare il
loro dovere nel pretendere il rispetto della conformità e ammonì tutto il
popolo a non aspettarsi, né a tentare, ulteriori modifiche al libro della
preghiera comune; poichè egli non avrebbe lasciato presumere a nessuno che il
suo giudizio, espresso su un argomento di tanto peso, potesse essere soggetto a
modifiche su suggerimento di qualche spirito leggero... Ma l'offesa più grande,
ai diritti civili di questi uomini, fu l'arresto di dieci persone tra quelle
che avevano presentato la Petizione Millenaria; poichè i giudici della
Camera Stellata avevano dichiarato che questa costituiva un reato punibile a discrezione,
in quanto si avvicinava molto al tradimento e tendeva all'incitamento alla
sedizione e alla rivolta. Con questi inizi la casa degli Stuart indicava il
corso che avrebbe seguito » (21).
La conseguenza diretta di
questa politica fu che trecento ministri del culto puritano diedero le
dimissioni, in quegli stessi mesi, piuttosto che uniformarsi al nuovo libro
della preghiera.
Nel marzo del 1604 Giacomo convocò il suo
primo parlamento con un decreto che impartiva direttive per l'elezione dei candidati
che erano al di fuori della tradizione: limitavano le libertà del corpo
elettorale e nello stesso tempo calpestavano i diritti acquisiti del
parlamento. Date le premesse, i contrasti tra Giacomo e la Camera dei Comuni insorsero
sin dalla prima battuta. Il caso Goodwin ne fu l'occasione.
Il decreto di convocazione stabiliva, tra
l'altro, che si doveva evitare l'elezione di persone che non rispondessero a
certi requisiti, fissati dal decreto stesso, e che gli sceriffi dovevano
inviare i decreti di elezione direttamente in cancelleria, la quale era la
competente a dichiarare la validità dell'elezione, dopo aver accertata
l'aderenza ai termini del decreto reale. « Questo arrogarsi il controllo delle
elezioni al parlamento era un chiaro infrangimento dei privilegi che la Camera dei Comuni si era
venuta conquistando nel regno precedente » (22).
Tommaso Goodwin, che era stato eletto per
la contea Buckingham, fu dichiarato ineleggibile dalla cancelleria perchè in
passato era stato un proscritto e perciò ricadeva in una delle condizioni di
ineleggibilità previste dal decreto reale. Al suo posto fu dichiarato eletto un
consigliere privato del re, Sir John Fortescue.
La
Camera dei Comuni, dopo aver dibattuto il caso, decise che la
elezione del Goodwin era regolare e quindi egli doveva prendere il suo seggio
alla Camera. Questa decisione incontrò, come era prevedibile, l'opposizione del
re. Dopo un breve irrigidimento di entrambe le parti, fu deciso di dichiarare
decaduti sia Goowin che Fortescue e procedere a nuove elezioni. Per il
parlamento questa era la prima vittoria, anche se non completa, su un sovrano
che in poco più di un anno di regno aveva dimostrato, ad abundantiam. in
quale modo intendesse governare il paese.
Egli « aveva fra tutte le dottrine
abbracciato quella favorevole al potere assoluto dei re. E, nonostante che gli
umori della nazione inglese fossero ostili ad una tale concezione: egli non si
peritava di sostenerla pubblicamente, anche con messaggi diretti al parlamento
[come sul caso Goodwin], affermando che se, per antica consuetudine il re
tollerava le antiche prerogative parlamentari, egli aveva da Dio la potestà di
abolire questa partecipazione ai poteri sovrani qualora lo avesse stimato conveniente
» (23).
I diritti acquisiti dal parlamento in lunghi
secoli di lotta non erano stati mai così in pericolo come questa volta. Altri
sovrani avevano tentato di esautorare o di governare senza convocare il
parlamento, ma mai nessuno aveva messo in discussione alcuni diritti
fondamentali che il parlamento aveva goduto da tempo immemorabile, come faceva
ora Giacomo I. Molti sovrani avevano disatteso le leggi approvate dal
parlamento. Molti di essi avevano usato il potere dispensativo che era loro riconosciuto,
anche se non condiviso, per esentare qualche persona o gruppo sociale dall'osservanza
di una legge particolare, ma mai nessuno si era arrogato il diritto di alterare le leggi se lo
stimava opportuno.
Mai nessuno si era dichiarato, dopo il XIII
secolo, al di sopra della legge. La formula di Bracton, il giurista di Enrico
III, Rex non debet esse sub omine, sed sub deo et lege, era stata osservata
nella forma da tutti i sovrani. Quando Riccardo II tentò di instaurare il
governo assoluto, egli lo fece in virtù di un potere che si era fatto delegare (almeno così egli
presumeva) dal parlamento. E fino al 1307 il solo diritto ereditario non
costituiva un titolo suffire ciente per
salire al trono.
In Inghilterra, infatti, si era conservata
la tradizione germanica dell'elezione del re. Fino a questa data tutti i re
ricevevano formalmente l'elezione: dall'assemblea dei maggiorenti
(Witenagemote), sotto gli anglo-sassoni, dal Gran Consiglio, sotto i Normanni, e dal parlamento sotto i plantageneti.
Solo a partire da questa data il re salì al trono « par descente de heritage ».
Tuttavia la formula dell'elezione continuò a sopravvivere fino ad Enrico VIII.
Tutti i sovrani, appena saliti al trono, si
facevano riconoscere dal parlamento. Anche Edoardo IV, che e rivendicò il trono
per diritto ereditario, non appena si rappacificò col parlamento, si fece
riconoscere re. Giacomo I non sentì questa necessità perchè nel frattempo il
diritto ereditario era diventato divino e quindi non aveva bisogno del
riconoscimento di alcuna autorità terrena. Le parti ora si invertivano: non era il re che derivava
l'autorità dal consenso della comunità rappresentata dal parlamento, ma era
quest'ultimo che partecipava ai poteri del primo per sua gentile concessione.
La risposta dei Comuni venne nel giugno
dello stesso anno, con l'approvazione di una Apologia con la quale si
comunicava al re, suaviter in modo f oriiter in re, che egli cadeva in errore
quando affermava che « i nostri privilegi li godiamo in primo luogo non
per diritto acquisito, ma
per gentile concessione [del sovrano], che viene rinnovata ad ogni parlamento
come dono dietro petizione, e quindi sono di natura limitata; in secondo luogo,
che noi non siamo un organo decisionale... e infine che l'esame dei risultati
elettorali dei collegi provinciali e comunali per la elezione al parlamento dei
cavalieri e dei borghesi, sia al di fuori dei poteri e sia di competenza della
cancelleria. Contro queste affermazioni... che tendono in modo apparente a negare
i privilegi fondamentali della nostra Camera - e con essi tutte le libertà di
tutti i Comuni del regno d'Inghilterra, goduti da tempo immemorabile da essi e
dai loro antenati.., noi - i cavalieri e i borghesi della Camera dei Comuni,
riuniti in parlamento - in nome di tutti i comuni del regno protestiamo
fermamente... desideriamo che questa nostra protesta sia messa agli atti per
essere tramandata ai posteri... noi affermiamo che i nostri privilegi e le
nostre libertà sono nostri diritti ereditari non meno della nostra terra e dei
nostri beni. Essi non ci possono essere negati o sottratti senza far torto a
tutto il paese; se all'apertura di ogni parlamento vengono rivendicati è solo
per un formale atto omaggio che non indebolisce il nostro diritto, non più di
quanto s'indebolisce il nostro diritto di proprietà se chiediamo con una
petizione la nostra terra al re... Il diritto alla libertà dei Comuni
d'Inghilterra, riuniti in parlamento, consiste principalmente in tre cose; a)
le contee, le città e i borghi... hanno il diritto di sceglie,liberamente i
loro rappresentanti e la Camera
è il solo giudice abilitato a confermare la validità delle elezioni dei suoi
membri. senza di che la libertà elettorale non sarebbe piena; b) i rappresentanti
eletti godono dell'immunità dagli arresti per tutto il tempo durante il quale
esercitano il loro mandato; c} questi stessi rappresentanti godono del diritto
di libertà di parola durante í lavori parlamentari » (24).
Se il re giustificava la sua vocazione al
potere assoluto col divino diritto ereditario, anche i Comuni reclamavano
l'osservanza dei loro privilegi per diritto ereditario. Giacomo faceva derivare e questo diritto direttamente da
Dio, i Comuni lo facevano risalire alle generazioni passate, alle lotte degli
uomini che in tempi remoti avevano affermato il loro inalienabile diritto alla
determinazione della tassazione col proprio consenso, alle libertà personali.
«
Gli uomini incominciarono a guardare indietro nel tempo. Grandi uomini di legge
come Coke e Selden avevano diretto il loro sguardo ai diritti che essi
pensavano che il parlamento aveva posseduto sotto i re lancasteriani.
Spingendosi oltre, essi parlavano con orgoglio dell'opera di Simon de
Montfort, della Magna Charta, e persino di diritti ancora più antichi dei tempi
della monarchia anglo-sassone. Da questi studi essi derivarono la convinzione
che essi erano gli eredi dì un'intera struttura di leggi fondamentali inerenti
alle consuetudini dell'isola, la quale struttura serviva ora per ì loro problemi
immediati. Sembrava loro che il passato potesse fornire quasi una costituzione
scritta, dalla quale ora la corona cercava dì allontanarsi. Ma anche la corona
guardava al passato e trovò molti precedenti in senso contrario, specialmente
negli ultimi cento anni, per un completo esercizio della prerogativa reale »
(25).
Nel caso Bate, un mercante di tappeti e
stoffe orientali che nel 1606 si era rifiutato di pagare un extra dazio
illecitamente imposto da Giacomo senza il consenso del parlamento, i giudici
scandagliarono la storia passata per concludere - fornendo tutta una serie di
precedenti e di statuti che giustificavano il buon diritto del re ad imporre
dazi per proprio diritto prerogativa - che il « potere del re è duplice,
ordinario e assoluto... Quello ordinario è tutto a favore dei privati
cittadini... si amministra nei tribunali ordinari e nel diritto romano si
chiama ius privatum, da noi si chiama diritto comune. Questo diritto non può
essere modificato se non dal parlamento... Il potere assoluto del re non è
rivolto all'interesse del privato cittadino, ma all'interesse generale del
popolo.., poichè il popolo è il corpo e il re la testa. E questo potere ... è
conosciuto col nome di politica e governo... Il commercio estero, la pace e la
guerra, la circolazione di monete estere, i trattati e gli accordi
internazionali, sono regolati e decisi dal potere assoluto del re » (26).
Nella sua lotta contro il potere assoluto
del sovrano il parlamento non poteva contare, almeno in questa prima fase, su
alleati. I giudici, come abbiamo visto, erano dalla parte del re. Il clero, che
era fortemente spaventato dal diffondersi dello spirito puritano tra il basso
clero, era tutto a favore dell'assolutismo regio, nel quale vedeva un argine
contro la richiesta, che partiva dal basso, dell'abolizione di qualsiasi
gerarchia ecclesiastica. Nel suo zelo, nel difendere le prerogative regie, si
spinse fino ad individuare la fonte del potere assoluto in un primitivo,
orìginale e assolutistico regime
patriarcale. La corte, inutile dirlo, e coloro che giravano attorno ad essa,
avversavano quella che essi chiamavano la presunzione della Camera bassa. La Camera Lords non
sempre le stava accanto (27).
La cultura - rappresentata dalle ormai
prestigiose università di Oxford e Cambridge, che Giacomo I aveva elevato a
collegi elettorali, per dare loro possibilità di mandare i propri
rappresentanti al parlamento - anch'essa schierata a favore del potere
assoluto" e vedeva nel parlamento una sorta di organo ausiliario del
potere regio, ìl quale partecipava
all'attività legislativa, ma solo per dare alla comunità la possibilità di
esprimere il proprio consenso, dopo averle discusse ed esaminate, sulle leggi
che il re intendeva far approvare.
«I Comuni avevano ragione dì essere
apprensivi. La dottrina del potere assoluto di un re al di sopra della legge
era fatta propria da tutti coloro che si aspettavano favori dalla corona, e in
particolar modo era fatta propria dal partito dell'alto clero. La Convocazione, nel
1606, aveva stilato una serie di canoni che denunciavano l'errore di alcune
dottrine contrarie al governo reale. Questi canoni, sebbene mai pubblicati
nella loro stesura autentica se non in un'età posteriore, non potevano
rimanere segreti. Essi consistevano in una serie di proposizioni o
paragrafi, ognuno dei quali si
contrapponeva un anatema dell'errore contrario; e rintracciavano le origini
del governo nel regime patriarcale della famiglia, escludendo qualsiasi scelta
popolare. In quell'età dell'oro, le funzioni sia del re che del prete erano,
come essi le definivano, prerogative di casta, finchè la malvagità dell'umanità
non fece sorgere l'usurpazione e confuse così le pure acque della sorgente con
rivoli fangosi, ed ora dobbiamo badare a prescrivere quel diritto che non può
essere assegnato alla primogenitura... Norn è possibile che si possa adottare
questa teoria del governo originario, insoddisfacente come essa appare dopo
una breve riflessione, senza considerarla incompatibile con la nostra monarchia
mista o limitata. Ma la sua intenzione evidentemente andava in direzione
opposta. Il potere del re proveniva da Dio; quello dell'uomo proveniva soltanto
dall'uomo; ottenuto magari con la ribellione; ma quale diritto può derivare
dalla ribellione? Anche, se fosse stato ottenuto attraverso una concessione
volontaria, poteva un sovrano alienare un dono divino, e infrangere l'ordine
della Provvidenza? Potevano le sue concessioni, se non nulle per se stesse,
rivolgersi contro i suoi posteri, eredi, come egli stesso, della infeduazione
della creazione? ... Il vero scopo del clero nell'innalzare in questo modo le
pretese della corona era di conquistarsi il suo favore e il suo appoggio »
(29).
Nel 1607, il vice rettore e professore di
diritto romano all'università di CambIridge pubblicò un dizionario legale nel
quale si davano definizioni per i vari poteri dello stato. Alle voci «Parlamento
» e « Prerogativa del re » si affermava: « ... una delle due deve essere vera:
o il re è al di sopra del parlamento e, cioè, del diritto positivo del regno, o
non è un re assoluto.... vincolare un principe all'osservanza delle leggi
ripugna alla natura e alla costituzione di una monarchia assoluta... ed è
incontrovertibile che il re d'Inghilterra sia un re assoluto » (30).
Alla voce « Re » si affermava: « Egli è al di
sopra della legge in virtù del suo potere assoluto...; e sebbene per
l'approvazione delle leggi egli convochi in consiglio - per avere una migliore
conoscenza dei problemi - i tre "stati" cioè, i Lords spirituali, i
Lords temporali ed i Comuni, tuttavia nell'opinione di molti esperti, egli non
lo fa perchè obbligato, ma per propria benevolenza o in base alla promessa
fatto sotto giuramento al momento dell'incoronazione. E sebbene alla sua
incoronazione egli giuri di non alterare le leggi della nazione, malgrado
questo gìuramento, egli può alterare o sospendere qualsiasi legge particolare
che a suo giudizio sia dannosa al bene pubblico » (31).
Sembrava che la teoria di Giacomo dovesse
trionfare. Le alte gerarchie della chiesa lo sostenevano; la cultura ufficiale
era con lui; i giudici avevano deciso, nel caso Bate, che egli aveva il potere
di imporre tasse sull'import-export. Forte di questi consensi, e mentre il
parlamento era chiuso, egli emise proclami che creavano nuovi reati punibili
nelle corti prerogative e promulgò, nel 1608, un nuovo tariffario, il quale era
così pesante da provocare un forte malcontento che trovò espressione nel 1610,
quando le forti difficoltà finanziarie costringono il re a convocare una nuova
sessione parlamentare (la quinta ed ultima del parlamento del 1604).
Sin dalla prima seduta, i Comunii
dimostrarono di aver passato i tre anni che li separavano dall'ultima sessione
a prepararsi, approfondendo la conoscenza della storia del proprio paese e di
quella parlamentare in particolare. Per prima cosa essi erano determinati ad
attaccare il dizionario di Cowell e a questo scopo chiesero di incontrarsi con
i Lords per decidere la strada da seguire, ma il re li precorse e fece ritirare
il libro dalla circolazione. Poi approvarono una risoluzione da inviare al re,
che in un messaggio « aveva proibito loro di discutere del suo potere prerogativo
di imporre tariffe » (32), in cui sì ribadiva che era « un antica,
onnicomprensivo, indiscusso diritto del parlamento dì dibattere liberamente
tutti i problemi connessi con i diritti e la condizione del popolo; quando
questo diritto alla libertà di dibattito è precluso, l'essenza della libertà
del parlamento sparisce con esso » (33). Perciò essi si riservarono il diritto
di riesaminare il caso Bate per rendersi conto su quali fondamenti esso
poggiasse, dato che il re si era servito e si serviva di esso per imporre
tariffe sempre più onerose e questo poteva essere l'inizio per estendere il suo
diritto prerogativo «molto più lontano, persino fino alla più completa
abolizione delle antiche libertà di questo regno e del diritto alla proprietà
di beni mobili e immobili dei sudditi » (34).
Questa forte presa di posizione dei Comuni -
contro il diritto della corona di imporre la tassazione sull'import-export e
contro l'abuso nell'emissione di proclami che invadevano sempre più la sfera
del diritto comune a favore della giustizia prerogativa, amministrata nei
tribunali reali incominciò a fare incrinare la sicurezza del governo sui suoi
poteri e per questo motivo andò alla ricerca di coperture legali (35), come le
aveva avute nel caso Bate.
Sulla questione dei proclami consultò ancora
i giudici, i quali - sotto la guida del presidente Coke - riconobbero al re il
potere di emettere proclami, ma questi proclami « non potevano creare nuovi
crimini, altrimenti avrebbero alterato la legge del paese... [la quale] è
divisa in tre parti: diritto comune [di produzione dei tribunali ordinari],
diritto scritto [di produzione parlamentare] e dalla consuetudine. E i proclami
del re non appartengono a nessuna di esse... Il re, [aggiungevano i giudici],
ha solo quelle prerogative che gli derivano dalla legge del paese. Per la
prevenzione del crimine, egli può emettere proclamii per ammonire i sudditi ed
invitarli al rispetto delle leggi se non vogliono incorrere nelle pene previste
» (36), le quali diventavano più severe se erano coperte da un proclama. Niente
di più.
« Questa costituiva, probabilmente, una sana
politica del diritto e c'era un preciso precedente in questo senso che
proveniva dalla metà del periodo Tudor. Durante il regno di Maria, i giudici
avevano espresso questo opinione: il re, si asseriva, può emettere proclami
quod terrorem populi, per mettere in guardia il popolo contro il suo potere
coercitivo, ma non per imporre ammende, confische o arresti: poichè nessun
proclama può creare una nuova legge, ma solo confermare e ratificare una legge
antica. Ma, sebbene Giacomo I avesse avuto un parere sfavorevole da parte dei
giudici, egli continuò ad emettere proclami.
E' difficile per noi renderci conto dello
stato delle cose - quelle di un governo che costantemente agiva in forme
dichiarate illegali dai giudici. La chiave per capirlo è la corte della Camera
Stellata - lo stesso consiglio che emetteva questi proclami li faceva
rispettare nella sua qualità di tribunale penale, e fino ad ora nessuno osava
opporsi alla sua giurisdizione» (37).
Il risentimento dei Comuni contro i
tribunali speciali, quali la
Camera Stellata, era dettato dal fatto che essi si arrogavano
il potere di giudicare quegli atti che ricadevano sotto il dominio del diritto
comune, ma che l'emissione di proclami reali facevano rientrare nelle
competenze delle corti prerogative, quale la Camera Stellata indubbiamente era.
Nel passato questo tribunale aveva reso
grossi servizi al nuovo stato che sorgeva dalle rovine della guerra civile
delle due rose. Esso aveva contribuito ad eliminare lo strapotere dei nobili
sopravvissuti e ad accentrare tutto il potere nella corona. Ma ora esso era
diventato uno strumento di oppressione nelle mani di un sovrano che si definiva
re per grazia di Dio. I Comuni chiedevano al re di eliminare questo abuso. I
proclami non potevano invadere il campo del diritto comune e la Camera Stellata
non poteva sostituirsi ai tribunali ordinari. E' vero che alla corona veniva
riconosciuto un certo potere normativo in quei campi in cui il re esercitava il
suo potere prerogativo. E abbiamo visto che Elisabetta usò questo suo potere
per mettere al bando alcune sette dì protestanti, ma essi contestavano alla
corona il potere di emettere proclami che avessero forza dì legge o che
invadessero le libertà riconosciute dei sudditi.
Solo ad Enrico VIII il parlamento riconobbe,
con un Atto del 1539, il potere di emettere proclami che avessero forza di
legge. Ma quest'Atto fu subito revocato dal parlamento nella sua prima riunione
sotto il regno di Edoardo VI. I Comuni allora si erano resi conto di quale
tremendo potere avessero concesso al re e glielo revocarono, sebbene - bisogna
aggiungere - Enrico VIII non ne abusò mai; eppure esso poteva costituire lo
strumento attraverso il quale il re poteva instaurare un potere diretto ed
incontrollato, assoluto.
Tra Giacomo I e il parlamento non c'era
possibilità d'intesa. I Comuni erano sospettosi di un re che si definiva al di
sopra della stessa legge e quindi avevano paura che ogni accordo non fosse poi
rispettato. Il re temeva che ogni concessione poteva costituire un
precedente che potesse
poi intaccare il suo potere prerogativo.
«In questa crisi, destinata a condurre alla
guerra civile e infine all'esecuzione del re, la questione di fondo era...
quale fosse la sede della sovranità e se si poteva ancora giustificare
l'accentramento del potere nelle mani del re » (38).
Il parlamento fu sciolto il 6 dicembre 1610,
senza che esso avesse approvato i fondi che il re aveva chiesto. « Il Lord
cancelliere, ripensando a questo parlamento dopo il suo scioglimento, trovava
che mentre i poteri del re e dei Lords si erano ridotti, i Comuni erano
diventati potenti e audaci... la cosa non terminerà (se non sarà fermata a
tempo) finchè non sfocierà in un'aperta democrazia » (39).
Fino al 1614 Giacomo governò senza parlamento. ma
le esigenze di uno stato in crescita nella sua organizzazione e nella dilatazione
delle sue funzioni, la politica dispendiosa di un sovrano che elargiva ai suoi
favoriti, creavano un continuo bisogno di mezzi finanziari sempre più
imponenti, che non potevano essere reperiti con le sole entrate ordinarie della
corona. E poichè molto spesso Giacomo non riusciva ad imporre dei prestiti
forzosi per la baldanza dei mercanti che non avevano paura di opporre un
rifiuto alle esose richieste del re, «egli fece ricorso ad un altro metodo per
raccogliere fondi, senza precedenti - credo - prima del suo regno, sebbene
praticato in Francia: la vendita delle cariche. Egli vendette parecchi titoli
di pari per somme considerevoli e creò un
nuovo ordine di cavalieri ereditari, chiamati baronetti, i quali
pagavano 1000 sterline per il titolo » (40).
Dietro l'insistenza del partito di corte,
di cui era leader Bacone, il re decise di convocare un nuovo parlamento per il
cinque aprile 1614. Questo partito si era proposto l'obiettivo di creare le
condizioni necessarie per stabilire un qualche controllo o una qualche
influenza sul parlamento. Secondo i suoi piani, il re doveva dimostrare una
certe apertura verso i Comuni, dichiarandosi disposto a fare certe
concessioni, «e la Camera,
certamente, non sarebbe stata così taccagna da rifiutare i tributi richiesti »
(41).
Nello stesso tempo, i personaggi più
influenti del partito, « ... descritti come curatori, si impegnarono a fare eleggere
candidati amici per ottenere una maggioranza favorevole al governo » (42). Ma
il progetto di addomesticare il parlamento fallì per l'ostinazione dei Comuni,
che si rifiutarono di votare i fondi richiesti finchè non fosse stata
soddisfatta la richiesta di riparazione dei torti lamentati, e per l'imperizia
del partito e dello stesso re, che non seppero far fronte alle aspettative che
avevano creato con le loro promesse. Il parlamento fu sciolto dopo breve tempo
senza aver approvato alcuna legge o provvedimento. Alcuni dei suoi membri,
quelli che si erano più distinti nel difendere le prerogative del parlamento,
furono arrestati alla chiusura delle Camere e questa violazione della libertà
di parola, ormai riconosciuta da tempo, creò un pericoloso precedente per la
corona.
I piani del re e dei suoi cortigiani
fallirono perchè essi sottovalutarono il potere del parlamento ", al
contrario dei Tudor che, formalmente, lo considerarono sempre compartecipe
della sovranità dello stato. I Tudor erano coscienti che non avevano nulla da
temere dal parlamento finchè lo controllavano attraverso la leadership che vi
esercitavano ì loro ministri. Gli Stuart non si preoccuperanno mai di farvi
sedere permanentemente i loro consiglieri più influenti ` per esercitare su di
esso il potere di influenza necessario per farlo agire nel senso desiderato,
pur riconoscendogli, nella forma, una certa autonomia decisionale. Ma, per
farlo, gli Stuart avrebbero dovuto essere più realisti e meno arroganti. Il
loro diletto di fondo - che li spingerà fino all'ottusità - era l'arroganza del
potere. Essi si sentivano depositari di un potere che non veniva dal basso, dal
popolo rappresentato dal parlamento, ma veniva dall'alto, da un'Entità che era
al di sopra degli uomini: da Dio. Essi sentivano di essere re per grazia di Dio
e non per volontà del popolo, collegandosi in questo con gli altri sovrani del
continente europeo, dove « l'assolutismo trionfava quasi ovunque » (45).
La guerra civile si combatterà per stabilire
quale di questi due principi era quello giusto. Il popolo prevarrà e affermerà
- una volta per tutte - il principio secondo il quale, quando un re non gode la
fiducia del popolo, questo ha il diritto-potere di deporlo e di mandarlo al
patibolo. Questo principio non era del tutto nuovo nella storia inglese. Altre
volte il parlamento aveva deposto dei sovrani, ma questa volta si spingerà
oltre, mandandolo al patibolo.
« Quando Giacomo si
lamentò con l'ambasciatore spagnolo, [non senza ragione], che i Comuni era
diventati un corpo senza testa che "esprimeva i suoi pareri in modo
disordinato" con nient'altro che "grida, schiamazzi e
confusione", egli non si rendeva conto che egli stesso ne era il
responsabile. La Camera
andava alla ricerca di una nuova leadership e in questa sua ricerca procedeva a
tentoni. Se i Comuni avessero potuto lasciare i problemi di alta politica ad
uomini in cui avevano fiducia, che fossero stati presenti sul posto per
spiegare loro il pensiero reale, essi sarebbero stati, forse, meno propensi ad
incamminarsi su questo terreno. Ma il ritorno del Consiglio privato alla sua
vecchia composizione aristocratica, che era stata eliminata sotto i Tudor,
aveva lasciato pochi consiglieri disponibili per occupare un seggio nella
Camera bassa. Più di una metà dei membri dell'ultimo consiglio di Elisabetta -
in verità due terzi di quelli effettivamente in carica - erano borghesi che
sedevano nella Camera dei Comuni; nel 1613, in un consiglio molto più ampio, il
numero dei borghesi era molto più limitato e non si facevano grandi sforzi pr
trovare un seggio in parlamento neanche a questi pochi. Nella prima sessione
parlamentare del regno i consiglieri presenti erano soltanto due » (46). «Ne
conseguì che l'opposizione assunse in tono più deciso ed agguerrito » (47).
Il numero dei consiglieri aumentò nei
parlamenti successivi, ma Giacomo «fu lento a percepire l'importanza»" e
1'utìlìtà di fare dei consiglieri il veicolo attraverso il quale stabilire il
suo controllo sulla Camera bassa, cosa che, i Tudor seppero fare in modo
egregio.
« Quasi senza essere
notati i Consiglieri Privati cessarono d. esercitare la loro leadership sui
Comuni. E altrettanto insosservato, senza un documento o una carta che potesse
servire da pietre miliare, venne alla ribalta del potere nei Comuni un gruppo
d. leaders, che non avevano alcun legame ufficiale col governo, che tra loro
stessi non avevano vincoli comuni, tranne quello del!e opinioni e dei
sentimenti che legavano come classe la piccola nobiltà di campagna. Questi
uomini, senza prefiggerselo e inintenzionalmente, ma col solo scopo di
risolvere i problemi come venivano ponendosi, crearono una nuova leadership.
Col sorgere di questa nuova leardership i Comuni [acquisteranno; il reale
potere di iniziativa » (49).
Questi uomini nuovi si resero interpreti del
pensiero delle Camera che era a favore di una riforma della chiesa e contro la
concezione assolutistica del potere dì Giacomo I e, con la loro infiammata
oratoria, con la forza delle loro argomentazioni, basate su una ricerca
storica imponente e una profonda conoscenza delle lotte parlamentari combattute
nel passato, con la loro scienza giuridica e la loro dedizione alla causa dei
poteri acquisiti del parlamento, riuscirono a trascinarla contro un sovrano
che, con la sua teoria del potere assoluto, intralciava lo sviluppo della
classe di cui erano espressione massima: la borghesia. Giacomo aveva
confusamente capito il ruolo che questi uomini svolgevano e in un primo momento
cercò, dopo la chiusura delle Camere nel 1610, di conquistarli al campo
realista. Il suo tentativo ebbe un parziale successo e nel parlamento del 1614
alcuni di essi, i Nevill, Yelverton,
Hyde, Crewe, Dudley e Digges, sposarono la causa
della corona, ma questo (assieme agli altri accorgimenti di cui abbiamo parlato
prima) non servì a vincere la determinazione della Camera a combattere la sua
battaglia. Ai vecchi leaders, passati al
campo monarchico, se ne sostituirono dei nuovi.
E « il repentino scioglimento del parlamento
non fu sufficiente per lenire l'esasperazione di Giacomo. Quattro deputati che
si erano distinti di per la loro foga oratoria, Wentworth, Horkins, Christopher
Nevill e Sir Walter Chute, furono imprigionati nella Torre. A Sir Edwin Sandys
e quattro altri deputati fu ordinato, nello stesso tempo, di non allontanarsi da Londra senza un regolare
permesso, mentre Sir John Gavile, Sir Roger Owen, Sir Edward Phaelips e
Nicholas ni- Hyde, furono puniti licenziandoli » (50) dal loro impiego governativo.
Ma dove non erano servite
le blandizie, le maniere forti si dimostrarono ancora più controproducenti. Il
solco tra Giacomo e il parlamento divenne più profondo; e queste misure, che
saranno ripetute nel parlamento del 1621, non eviteranno che questi uomini,
a cui se ne aggiungeranno
altri, si mettano alla testa del parlamento per guidarlo nello scontro frontale
con Carlo I.
Il parlamento del 1614 era rimasto in vita
solo due mesi. Esso fu sciolto senza
aver votato i mezzi finanziari per cui era stato convocato. Ma Giacomo era
ormai deciso a fare a meno di esso e risolvere i problemi finanziari per altre
vie. Nello stesso anno egli cercò di imporre una « benevolenza » che suscitò
l'opposizione di tutti gli strati sociali a cui la si voleva imporre, compresi
gli sceriffi. Essa venne dichiarata illegale in base allo statuto approvato
nel regno di Riccardo III. Solo i sostenitori della corona, l'alto clero in
testa, si autotassarono per aiutare le casse dello stato.
Fino al 1621 Giacomo adottò una politica
fiscale rigorosa, spremendo tutte le fonti ordinarie e straordinarie delle
entrate; nello stesso tempo restrinse i cordoni della borsa per la spesa
pubblica e il mantenimento della casa reale`. Sembrava che il tentativo di
governare il paese senza convocare il parlamento fosse destinato al successo.
Nel 1620 si era persino raggiunto il pareggio del bilancio. Ma tutto questo si
era ottenuto con provvedimenti (forti imposizioni, vendite di patenti di
monopoli, di titoli, ecc.) che avevano suscitato un forte ed acuto malcontento
nel popolo.
Gli avvenimenti europei del 1620 costrinsero
il re a convocare il parlamento che si riunì nel febbraio del 1621. La figlia
di Giacomo, Elisabetta, aveva sposato il protestante Elettore del Palatinato,
Federico, il quale nel 1619 era stato eletto alla dignità reale di Boemia, in
sostituzione del deposto Ferdinando d'Asburgo. L'episodio si inquadrava nella
Guerra dei Trent'anni (1618-1648), di cui esso era l'evento originatone,
combattuta tra la potenza cattolica del Sacro Romano Impero della Casa d'Asburgo
e i principi protestanti della Germania, che godevano dell'appoggio della
Francia, della Svezia, della Danimarca e dell'Inghilterra.
Nel 1620 le forze imperiali e la lega
cattolica sconfîssero Federico, riconquistando la Boemia, ed invasero il Palatinato.
A queste notizie, il popolo inglese, che era sinceramente legato alla causa
protestante, incominciò a premere affinchè si intervenisse a difendere con le
armi l'integrità territoriale del regno del genero di Giacomo. Sotto questa
spinta, Giacomo si decise a convocare il parlamento, il quale, messi da parte
tutti i risentimenti contro il sovrano, votò - nella prima seduta - i mezzi
necessari per intraprendere la guerra a fianco dei princìpi protestanti.
Se Giacomo avesse dimostrato di avere fiducia
nei Comuni, se avesse spiegato loro la sua politica e avesse chiesto il loro
aiuto per portarla avanti, la storia degli anni successivi potrebbe essere
stata differente » (52). Ma Giacomo era troppo geloso delle sue prerogative
per farlo. « Delusi della politica estera, i Comuni rivolsero la loro
attenzione alla politica interna » (53).
Su proposta di Coke fu nominata una
commissione per investigare sugli abusi lamentati. I primi ad essere
investigati furono i monopoli ', dove maggiormente si annidava la corruzione e
il malcostume. La Camera,
su proposta della commissione, decise di mettere sotto accusa (impeachment) Sir
Giles Mompesson e il suo socio Michell che, come monopolisti, erano stati
accusati di tutta una serie di reati. A questo processo, in cui i Comuni
svolsero il ruolo di pubblico accusatore ed i Lords quello di giudici, ne
seguirono altri a carico di pubblici ufficiali che si erano macchiati del reato
di corruzione. Dello stesso reato fu accusato il Lord Cancelliere Bacone che, trovato
colpevole, fu condannato ad una pena detentiva, fissata dal re, al bando dei
pubblici uffici e alla perdita del diritto dì sedere in parlamento.
La riesumazione della politica
dell'impeachment, a cui non si era fatto più ricorso dal 1450, non era altro
che un ritorno all'antica lotta per stabilire la responsabilità dei ministri
verso il parlamento. Fino a questo punto dei lavori, comunque, tra il re e il
parlamento non ci furono contrasti. Essi, invece, scoppiarono quando, subito
dopo la ripresa dei lavori parlamentari in autunno, la Camera dei Comuni, su
mozione presentata da Coke, si apprestava a votare una risoluzione con la
quale intendeva esprimere al re la sua sincera preoccupazione per la politica
filo spagnola che egli portava avanti con il progettato matrimonio del figlio
Carlo con l'Infanta di Spagna, la quale politica faceva il gioco del partito
cattolico che era in combutta con la cattolica Spagna e col papato. Essi si
spinsero fino al punto di suggerire che il principe sposasse una principessa
protestante.
Avuto sentore di questa
discussione, il re - con un messaggio allo Speaker - rispose con arroganza: «
Abbiamo avuto notizia da più parti, con nostro sommo rammarico, che la nostra
lontananza dal parlamento, dovuta ad indisposizione, ha fatto si che alcuni
bollenti e popolari spiriti della Camera si sentissero incoraggiati a dibattere
pubblicamente faccende che sono al di fuori della loro portata e delle loro
capacità. Perciò vi comandiamo di rendere noto alla Camera, per conto nostro, che
nessuno al suo interno deve presumere di intromettersi, d'ora in poi, negli
affari del governo o negli affari dello stato... E mentre apprendiamo che essi
hanno inviato un messaggio a Sir Edward Sandys
per conoscere il motivo del suo arresto, vi ordiniamo di riferire, a
nostro nome, che egli non fu arrestato per atti compiuti in parlamento. Ma, per
togliere loro ogni dubbio su questa faccenda, vi ordiniamo di riferire che,
d'ora in poi, ci sentiamo liberi ed abilitati a punire qualsiasi comportamento non
confacente tenuto in parlamento, sia durante le sue sedute che dopo, il che non
intendiamo risparmiare ad alcun deputato che abbia tenuto un comportamento
insolente verso di noi » (54).
In risposta i Comuni approvarono una formale
Protesta che fu inserita negli atti della Camera. In questa protesta essi
affermarono, con fermezza e con un linguaggio inequivocabile, « che le
libertà, le immunità, i privilegi e le giurisdizioni del parlamento sono
antichi e indiscussi diritti naturali ed ereditari dei sudditi inglesi, e che
gli affari di generale importanza e pressanti che riguardano il re, lo stato,
la difesa del regno, la chiesa d'Inghilterra, l'approvazione e l'applicazione
delle leggi, la riparazione dei torti, sono materia di discussione e di dibattito
proprio del parlamento, e che nella trattazione di questi argomenti ogni
membro di questa Camera ha, e di diritto dovrebbe avere, la libertà di parola
per esporli, trattarli e discuterli e portarli a conclusione; che i Comuni
riuniti in parlamento hanno un'eguale libertà di trattare quelle argomentazioni
nell'ordine che più ritengono opportuno; e che ogni singolo membro della Camera
gode dell'immunità daglii arresti, impeachment e molestie (tranne che per
censura della stessa Camera) per tutto il lavoro svolto in parlamento; e che se
a qualche deputato è mossa qualche accusa per quello che ha detto o fatto in
parlamento egli va condotto davanti al re su parere e col consenso di tutti i
Comuni riuniti in parlamento, prima che il re dia ascolto ad informatori
confidenziali. Alla presenza dello Speaker
si ordina che questa protesta sia iscritta nel libro della Camera e vi rimanga
come testimonianza » (57).
La reazione di Giacomo fu violenta ed
immediata. Si fece portare il registro degli atti parlamentari e strappò la Protesta con le proprie
mani. Con un decreto alquanto prolisso, ribadiva i suoi poteri, compreso quello
di convocare o sciogliere il parlamento,
chiuse le Camere e fece arrestare Coke, Phaelips, Selden, Pym e Mallory, « i
bollenti e popolari spiriti della Carnera », di cui si era lamentato nel suo
messaggio. Altri eminenti leaders dei Comuni furono mandati in un esilio dorato
con un incarico governativo.
« Vale la pena notare
che, in questa sessione, una parte della Camera alta si era associata ai Comuni
nell'opposizione alla corte. Niente del genere si può rintracciare nei
parlamenti precedenti, tranne, forse, nel parlamento della Riforma. In questa
minoranza « vi erano alcuni nomi prestigiosi: Essex, Southampton, Warwick,
Oxford, Say, Spenser. Sia che fossero mossi dal malgoverno o da i sudditi
risentimenti personali, la loro opposizione deve essere considerata vanti che
un segno evidente del cambiamento che stava avvenendo nella d'Inghil- nazione,
dal quale nessuno strato sociale poteva rimanere completamente immune » (58).
Il tono usato dalla Camera e la sua
puntigliosa quanto dettagliata dichiarazione di onnicompetenza nella
trattazione degli affari dello stato, su propria iniziativa e non per
beneplacito del re, che indicavano chiaramente quale direzione
avrebbe preso la lotta nel trattare il regno di Carlo I e degli altri Stuart
che seguiranno dopo la restaurazione del 1660. Essa travalicherà i termini
tradizionali per investire le fondamenta
del potere nello stato: dove risiedeva la sovranità, il potere supremo, nel
parlamento o nella corona? Il parlamento lotterà per dimostrare che era un suo
inalienabile diritto esercitarla; il re combatterà per conservarla alla corona.
Nel presente il fallimento del progettato
matrimonio di Carlo con l'Infanta di Spagna e un'inaspettata condiscendenza di
Giacomo, portarono ad un avvicinamento delle posizioni e, nel parlamento del
1624, la Camera
dei Comuni si dimostrò propensa a concedere i fondi necessari per riconquistare
il Palatinato. Giacomo, da parte sua, acconsentì alla nomina di otto tesorieri
di guerra, responsabili verso il parlamento, e si impegnò a consultarsi col
parlamento prima di concludere una eventuale pace. In questo parlamento, i
Comuni riaffermarono - attraverso un procedimento di accusa contro il Lord tesoriere Middlesex -
il loro diritto di mettere sotto
accusa, senza opposizione da parte di Giacomo, i ministri della corona e
votarono alcuni statuti di una certa importanza, tra i quali spicca l'Atto
contro i Monopoli. Alla morte di Giacomo, il 27
maggio 1625 il parlamento
si sciolse, ma esso era in vacanza dal 29 maggio 1624, quando chiuse la sua
prima sessione.