Capitolo VII
IL PARLAMENTO DIVENTA
STRUMENTO DI GOVERNO
Con il vincitore di Bosworth - Enrico
Tudor, l'ultimo rappresentante della casa di Lancaster - l'Inghilterra esce dal
lungo tunnel del medioevo per imboccare l'ampia e feconda strada dell'epoca
moderna.
Fino al 1485 la storia inglese è stata la
storia della lotta tra due poteri, la nobiltà e la corona, che si sono
affrontati, di volta in volta, sui campi di battaglia, nell'aula del parlamento
o nella stanza del Consiglio della corona, per determinare chi avesse il
diritto-potere di governare la nazione.
Nel 1485 uno di questi poteri - i nobili -
uscì stremato dalla lunga guerra civile, l'altro - la corona - ne uscì forte
come non lo era stato mai nel passato. Tuttavia, il periodo dei Tudor sarà un
periodo di transizione nella lotta per il potere. Dopo i Tudor la lotta
riprenderà, ma questa volta tra la corona e il parlamento. I re di questa
dinastia saranno di fatto, se non di diritto, monarchi assoluti che
governeranno la nazione in prima persona, liberi da qualsiasi controllo
limitativo.
«In un certo senso i Tudor [riusciranno] a
realizzare nella prassi gli ideali della monarchia medioevale, e la loro epoca
[sarà] l'epoca del trionfo della monarchia su tutti i rivali, o potenziali
rivali, nel controllo del potere amministrativo nello stato... Nessuno
[tenterà] di imporre un Consiglio ai re Tudor, nè di limitare il loro potere di
iniziativa o discrezionale. La monarchia Tudor [sarà] essenzialmente una
monarchia personale, ringiovanita, capace di dare nuovo vigore ai vecchi organi
amministrativi e crearne dei nuovi dalle ceneri dei vecchi; e - mantenendo un
perfetto controllo su tutto l'apparato - [riuscirà] a portare il potere
esecutivo ad un livello mai sognato, o quanto meno mai raggiunto nel passato»
(1).
Se prima dei Tudor il potere supremo, la
sovranità, era dispersa in un sistema pluralistico e corporativo, il primo
Tudor - Enrico VII - lo rivendicherà tutto per la corona e spoglierà gruppi
sociali (i nobili, ecc.) e le località della parte che essi avevano ottenuto o
erano riusciti a strappare al sovrano. La corona diventerà, così l'unica
depositaria del potere, di tutto potere. « Questo monopolio della sovranità
[sarà] qualcosa di sconosciuto nella storia inglese ed anche in altre...
Persino la sovranità del papa aveva i suoi rivali; quella dei Tudor non ne
[avrà] alcuno... Tutte le libertà e le giurisdizioni che erano intervenute tra
il suddito e il sovrano nazionale [saranno] abolite e gli inglesi [saranno]
portati in diretto contatto con lo stato... La corona [diventerà] l'agente e
il procuratore di tutti » (2).
Il parlamento diventerà uno strumento che
essa potrà usare per perseguire la propria politica. I suoi poteri non saranno
minori di quelli goduti nel passato, ma esso sarà pronto ad eseguire la volontà
del re ogni qualvolta questi lo richiederà. Formalmente il re sarà soggetto
alla legge non meno di prima, ma nella sostanza egli deterrà il monopolio della
legislazione attraverso il controllo della Camera bassa, dove la legislazione
di solito aveva inizio, e il cui Speaker sarà di solito un uomo di sua fiducia,
se non addirittura un funzionario reale. Inoltre, egli avrà altri mezzi per
evitare o neutralizzare una legislazione a lui sgradita: potrà dispensare gli
individui dall'osservanza di una legge particolare o concedere loro il perdono
giudiziale, ultima prerogativa rimasta; potrà aggiungere clausole condizionali
alle leggi approvate per svuotarne o, quanto meno, neutralizzarne il contenuto.
Un potere, questo, a cui molto spesso avevano fatto ricorso i suoi predecessori.
Queste clausole « avevano vigore di legge nonostante esse non avessero ricevuto
l'approvazione dei Lords e dei Comuni. Questo metodo, più pericoloso in teoria
che nella sostanza - la quale [sarà] sempre insignificante - avrebbe potuto
svilupparsi in un'arma a favore dell'assolutismo, se qualcuno avesse
desiderato instaurarne uno; esso, invece, fu abbandonato » (3).
I Tudor rappresentano il momento cruciale
per il parlamento: - poteva essere
distrutto - come avverrà negli altri stati europei o poteva essere dotato di nuova vita: essi
sceglieranno questa seconda strada.
«Sul continente europeo l'introduzione di
eserciti permanenti e la rivoluzione
nell'arte della guerra che la rese una scienza e un mestiere distinto, aveva
emancipato i governanti dalla principale limitazione al loro potere - la paura
di un popolo armato - e li mise in
condizione o di distruggere completamente o di ridurre a vuote formalità le
assemblee nazionali che una volta erano state libere e potenti come i primi
parlamenti inglesi.
Le libere costituzioni della Castiglia e di
Aragona [saranno] debellate da Carlo V e
da Filippo II; gli stati
generali di Francia, dopo essere sopravvisute per un certo periodo, [periranno]
completamente nel 1614 per essere resuscitate nel 1789, quando si tenne la
riunione finale alla vigilia della grande Rivoluzione... Se esse non [periranno
in Inghilterra] come sul continente, [lo si dovrà] in parte alla tradizione
lancasteriana che i Tudor erediteranno, fino ad un certo punto, e in parte al
carattere personale di Enrico VIII che [cercherà] di fare del a parlamento non
il rivale, nè tanto meno il signore, ma il fondamento dell'autorità regia »
(4).
La scelta di Enrico VIII sarà, tuttavia, in
un certo senso, obbligata ed inevitabile: egli si era impegnato in una lotta
che era superiore alle sue forze e, invero, alle forze di qualsiasi sovrano. E il destino di Giovanni Senza Terra stava lì a
dimostrarlo. Enrico poteva vincere solo se coinvolgeva tutta la nazione nella
lotta titanica contro il papato e l'impero di Carlo V, e la nazione era
ppresentata dal parlamento.
L'arroganza di Giovanni, che volle
combattere il papato avendo contro il popolo, fu pagata con la sottomissione ad
entrambi; l'apparente umiltà di Enrico VIII lo porterà alla vittoria: egli
dividerà col parlamento il potere che suo padre aveva rivendicato alla corona,
affermandosi, così, come potere politico e non regale. In questo consiste
l'originalità dei Tudor: essi praticheranno il potere assoluto, ma sotto forma
d: potere politico in sintonia col popolo rappresentato dal parlamento.
«Soddisfatti della realtà di un grande potere politico essi non si
[preoccuperanno] mai di rivestirla con la formale dottrina dell'assolutismo. E
sebbene essi [saranno] capaci di atti arbitrari, le loro azioni [porteranno] e
segni di una monarchia soggetta alla legge, che dispiega la sua azione integralmente
soltanto in cooperazione
col parlamento » (6).
Nell'associare il parlamento alle sue lotte,
la monarchia Tudor, in effetti, si ricollegherà, correggendola, alla
consuetudine del popolo inglese, che aveva condotto le sue rivoluzione al di
fuori del parlamento, ma che aveva sempre provveduto a legalizzarle - se
vittoriose - con un atto del parlamento. I Tudor, invece. condurranno le loro
lotte attraverso e per mezzo del parlamento e questo costituirà un'innovazione
molto importante.
Se prima del XVI secolo il parlamento era
stato uno strumento nelle mani di chi aveva la forza o il diritto di usarlo,
con i Tudor - pur rimanendo uno strumento nelle mani della corona che se ne
servirà per fare la propria politica - esso acquisterà una forza e una
consapevolezza del proprio ruolo che gli consentiranno, nel XVII secolo, di
diventare il soggetto principale della politica del Paese.
Nel passato la funzione del parlamento « era
stata principalmente quella di confermare il lavoro di fazioni rivali, di
fornire titoli agli usurpatori che avevano avuto successo, di riconoscere il
fatto compiuto, ma non portarlo avanti esso stesso. C'erano state cricche
baronali, ma mai un partito del parlamento, perchè il parlamento non aveva mai
posseduto un esprit de corps, nè un'autocoscienza; esso era una conferenza in
cui i fatti e le cose erano i fatti del re o delle fazioni dei baroni. Sotto i
Tudor, invece, esso [diventerà]
un'entità attiva e indipendente che [reclama] di parlare per una nazione in
toni cui i re [devono] prestare orecchio. Le petizioni per grazia erano finite,
e le petizioni per diritto [assume ranno]
una veste politica » (7).
A partire dal parlamento del 1529 si
diffonderà sempre più la convinzione che il potere supremo, la sovranità, appartiene
al re in parlamento. La corona era, sì, investita del potere, ma essa diventava suprema quando sedeva in
parlamento. Nella seduta del parlamento del 1543 Enrico VIII affermerà e
riconoscerà che « i nostri giudici ci
dicono che la nostra regalità non sta mai così in alto come quando essa è
seduta in parlamento, nel quale – noi come testa e voi come membra - siamo
congiunti e uniti in un unico corpo politico » (8). Queste, tuttavia, saranno
affermazioni formali e di principio perchè nella sostanza, sotto i Tudor, « i
parlamenti [saranno] così ligi alla volontà del re che il re è disposto ad
accettare [ed a fare] tutte le affermazioni che definiscono il parlamento
compartecipe della sovranità » (9). Ma questo è proprio il motivo per il quale
Enrico VIII non esiterà ad associare il parlamento nell'esercizio della
sovranità.
Egli, in realtà, cederà nella forma per
avere nella sostanza un potere più vasto
e più completo. Egli, infatti, riuscirà ad influenzare ed a manipolare il
parlamento a suo piacimento. Questo poteva significare che qualche volta doveva
cedere su punti di minore importanza e di nessun pericolo per la corona. Ma
sapeva perfettamente che innalzando i poteri del parlamento egli, in realtà,
innalzava e fortificava la posizione della corona nel paese e nel mondo. Quando
egli affermerà che « qualsiasi offesa o torto
arrecato al più umile membro della camera [dei Comuni] deve iessere
giudicata come offesa o torto fatto alla nostra persona » egli metterà in
evidenza quella identificazione tra corona e parlamento nell'esercizio del
potere sovrano, di cui si parlava più sopra. La corona in parlamento sarà più
forte e più potente della corona fuori dal parlamento perchè essa avrà dietro
di sè i'l popolo, rappresentato dalla Camera bassa. Enrico VIII coglierà e
sfrutterà questa distinzione politica. Il parlamento diventerà, così il
migliore strumento per portare avanti ed affermare i suoi disegni. Uniti,
corona e parlamento, avranno successo nella lotta contro ìl papato e l'impero.
«Il ricorso all'autorità della corona in
Parlamento è la fondamentale caratteristica del governo Tudor e la
testimonianza più completa della cooperazione tra sovrano e suddito su cui si
basava. Fu lo strumento per mezzo del quale fu portata a termine la rivoluzione
religiosa, e questa conquista fu il capitolo più luminoso che fosse stato mai
scritto nella storia del parlamento; poíchè esso postulava il rifiuto di
qualsiasi limite ai poteri del parlamento che fino ad ora era stato
inequivocabilmente accettato. Fortificata dalla autorità del parlamento, la Corona affrontò e sottomise
trionfante tutte le forze che negavano la sua supremazia nella sfera del
dominio finora monopolizzato dal potere ecclesiastico. Niente in questo campo,
per quanto venerabile e ricco, poteva sottrarsi alla forza di una legge del
regno, o imporre limiti all'intervento del parlamento. Persino nell'ambito del
suo indubbio dominio negli affari secolari, l'attività del parlamento fu
stimolata fino ad un punto che non conobbe precedenti nel passato e qualche
volta - come, per esempio, nelle leggi che autorizzavano il re a ripudiare i
suoi debiti e a predisporre ed alterare la successione al trono - in un modo
completamente arbitrario, senza alcun riguardo per la morale e la coscienza »
(11).
Le forti personalità dei sovrani Tudor
riusciranno a dominare il parlamento, anche se sotto Elisabetta si
verificheranno alcuni contrasti (12). Per tutto ìl periodo Tudor ìl parlamento
sarà al servìzio della corona. I poteri che esso riceverà da questa, saranno
poteri che esso userà per conto e a favore della corona, e su direttive della
corona. Ma quando la corona sarà rappresentata da sovrani meno abili, come gli
Stuart, il parlamento si avvarrà del lungo tirocinio nell'esercizio del potere
che fece sotto i Tudor per affermarsi come l'unico e il vero organo sovrano
nello stato. « Se non ci fosse stata quella preparazione sotto i Tudor non ci
sarebbe potuto essere quella lotta vittoriosa sotto gli Stuart » (13).
La lotta per il potere avrà, così, raggiunto
il suo primo traguardo: nel medioevo nella lotta furono impegnati i nobili e la
corona; vinse la corona, la quale - con i Tudor - governerà assoluta ed
incontrastata; nell'era moderna si fronteggeranno la corona e il parlamento;
vincerà il parlamento, il quale sarà depositario di tutta la sovranità di cui
uno stato moderno è dotato.
Il fondatore della dinastia - Enrico Tudor
- iniziò il suo regno facendosi riconoscere - subito dopo la vittoria di
Bosworth - re per proprio diritto dal parlamento. Immediatamente dopo
perfezionò il suo diritto al trono sposando Maria, figlia superstite di Edoardo
IV. Le due case - Lancaster e York - erano così finalmente unite, dopo
trent'anni di lotte sanguinose. Ma la loro unione non bastò per far sparire lo
spettro della guerra civile che aveva distrutto il fiore della gioventù inglese
ed aveva fatto scendere l'autorità dello stato ad un livello molto basso. Di
tanto in tanto si presentavano sulla scena presunti pretendenti che - facendo
appello ai principio di legittimità - riuscivano a coinvolgere « quei sudditi
che erano ancora fortemente intossicati da quel pregiudizio che aveva causato -
tempo addietro - la caduta della famiglia che Enrico affermava di rappresentare
» (14).
Per tagliare alla radice il male fondamentale
della guerra delle due rose e per garantire la propria dinastia contro
possibili ed eventuali attacchi da parte di chi presumeva di possedere un
diritto migliore al trono, Enrico farà approvare dal parlamento una legge che
stabilirà il principio secondo cui il dovere di lealtà dei sudditi andava verso
il sovrano regnante, sia che egli fosse de iure che de facto (15) e che essi
non potevano essere perseguiti nel futuro, per atti commessi in difesa della
casa regnante, mentre si rendevano colpevoli di alto tradimento tutti coloro
che avrebbero preso le armi contro di essa.
Questa legge è un buon esempio della tecnica
dei Tudor di mescolare promesse con minacce, e sembrerebbe, perciò, più una
mossa politica diretta a sanare una situazione particolarmente critica, che un
tentativo di definire in termini generali il problema legale e morale,
tragicamente difficile (e che travaglia parecchi paesi dei nostri giorni) di
quanta obbedienza si deve ad un governo de facto.
La politica umana e liberale che le epoche
successive hanno visto nella legge non animava certo la condotta di Enrico
VII. Non più tardi del 1553 sembrerebbe che ad essa non fosse attribuita alcuna
validità generale, dato che in quell'anno il duca di Northumberland [sarà]
condannato per aver aderito al partito di Lady Jane [la quale era stata regina
per nove giorni] ; egli non si appellò a quella legge - cosa che avrebbe
senz'altro fatto se fosse stata considerata portatrice di quel principio umano
che oggi le si attribuisce. Nel corso del XVII secolo [sarà] accettata come massima
costituzionale che il possesso del trono dà un titolo sufficiente per
pretendere la lealtà dei sudditi, e giustifica la resistenza che essi oppongono
a chi pretende di aver un diritto migliore per rivendicarlo; questa legge
[sarà] regolarmente citata per sostenere questa proposizione.
Essa [sarà] uno dei motivi che le anime candide
[avanzeranno] per convincere Cromwell ad impossessarsi della corona, e così
fare entrare i suoi sostenitori nei termini della legge. Al processo contro i
regicidi dopo la restaurazione, alcuni degli imputati si [sforzeranno] di
giustificarsi citando la legge, asserendo che essi avevano obbedito al governo
in carica e che perciò non erano traditori. I giudici, comunque, [riterranno]
che - sebbene questa sarebbe stata una buona difesa per gli atti compiuti sotto
l'autorità di un re usurpatore - essa non serviva per coprire gli atti che un
governo non regale aveva compiuto accusando e giustiziando un re ancora in
carica. Nella rivoluzione del 1688, i termini di questa legge [saranno]
considerati un motivo valido per accettare Guglielmo III come re, invece di
stabilire una reggenza, come suggeriva l'arcivescovo Sancroft e alcuni del
partito Tory ».
Questa legge mirava chiaramente a dare
stabilità e sicurezza alla dinastia regnante, ma nello stesso tempo rafforzava
i poteri della corona, che veniva fornita di un atto legale per perseguire
tutta quella parte della nobiltà che mal volentieri subiva l'autorità dello
stato centrale ed era pronta ad associarsi - con tutta la forza di cui
disponeva - a qualsiasi avventura che promettesse un ritorno ai vecchi tempi,
quando essa riusciva a condizionare il potere del re e godeva di enorme
prestigio ed autorità all'interno dello stato.
Già nel 1487 Enrico VII aveva fatto `una
piccola rivoluzione nella riorganizzazione dello stato che colpiva, e
duramente, il potere dei signorotti. In quell'anno egli aveva fatto approvare
dal parlamento una legge che istituiva il tribunale della Camera Stellata: una
sorte di tribunale speciale, dotato di poteri più ampi e diversi da quelli
delle normali corti di giustizia. Esso era inteso innanzi tutto a mettere
freno all'anarchia e alle prepotenze dei nobili che durante la guerra civile
avevano costituito dei piccoli eserciti personali con una propria divisa - la
livrea della casata - e ora li usavano per tiranneggiare il territorio sotto la
loro influenza (17).
Questo tribunale speciale doveva arrivare
e colpire dove i tribunali ordinari non riuscivano ad arrivare ed a colpire,
vuoi per corruzione, vuoi per paura di ritorsioni da parte del signore locale,
vuoi per effettive minacce all'incolumità fisica dei giudici, ma vuoi anche per
l'impossibilità di raccogliere prove contro i « provocatori dei disordini, dei
delitti, delle rapine e di tutti gli altri possibili misfatti »(18), i quali
godevano di una sorta dì impunità per il terrore che incutevano nelle
popolazioni.
«La caratteristica speciale del tribunale
della Camera Stellata - che lo rese idoneo a reprimere ì disordini provocati
dai potenti e che per un lungo periodo lo rese popolare - era che esso era una
corte dì giustizia prerogativa (19). Come tale esso non adottò mai la procedura
del diritto comune e non era obbligato a mantenere le salvaguardie attraverso
le quali il diritto comune cercava di proteggere l'accusato da ingiustizie nel
processo.
Esso non aveva una giuria; poteva forzare
l'accusato a deporre sotto giuramento; e poteva usare la tortura nelle
interrogazioni. Per queste ragioni esso fu chiamato, e giustamente, corte di
equità criminale. Esso forniva, almeno nel presente, una giustizia che non
poteva essere fornita diversamente; il fatto che esercitava direttamente le prerogative
del re lo metteva in grado di trattare con coloro che sfuggivano alle corti
ordinarie. E' evidente, tuttavia, che esso contenesse la possibilità di
diventare un efficace ingranaggio di una tirannia arbitraria, e alla fine esso
stava per diventarlo. Per quasi un secolo esso svolse un grande compito » (20).
Questo tribunale riuscì a distruggere tutti
i poteri (privilegi, prerogative, libertà, immunità, ecc.); che la classe dei
nobili aveva accumulato nel passato o usurpato sostituendosi al potere
centrale. Esso era potente perchè derivava il suo potere direttamente dalla
corona e aveva un'investitura parlamentare, in linea di principio non
necessaria. Infatti, esso era chiamato a svolgere una funzione che apparteneva
al Consiglio, quale esecutore e gestore delle prerogative regie; ed esso, in
effetti, era una commissione del Consiglio stesso, con la sola aggiunta di due
alti magistrati. Se il re aveva voluto istituzionalizzarlo, con un atto del
parlamento, era stato per dargli una più completa legittimità ed evitare
possibili contestazioni sulla natura e sull'uso delle prerogative della
corona. Con la sua istituzione si ebbe una specializzazione delle funzioni
dell'esecutivo. Il Consiglio conservava la funzione politica-amministrativa e
giurisdizionale, mentre la
Camera Stellata veniva investita di una « parte della sua
giurisdizione - nei casi di livrea e di mantenimento, di disordini ed assemblee
sediziose, di corruzione di giurati e di abuso di potere da parte degli
sceriffi » (21).
Questa divisione di compiti accentuò la
funzione politica ed esecutiva del Consiglio, che sotto i Tudor diventerà il
centro motore della politica della corona.
La storia del Consiglio della corona si
identifica con la storia della evoluzione degli organi costituzionali inglesi.
Il motivo fondamentale della lunga lotta tra la nobiltà e la corona era stato
quello di assicurarsi il controllo del Consiglio. La sua storia è la storia
delle alterne vicende di questa lotta. Quando il re era un debole o un minore,
il Consiglio era in mano della fazione dei nobili, quando il re era forte, esso
diventava il docile strumento di governo della corona. In questo senso la lotta
era iniziata già sotto Enrico III.
« Ma mentre sembra chiaro che Edoardo I
avesse un solo consiglio, Edoardo II ne aveva due: uno di sua scelta e che si
chiamava Consiglio segreto o privato, e uno che gli era stato imposto dai suoi
baroni e che si chiamava magnum concilium. Le due forme di consiglio
rappresentavano due partiti rivali, e il loro posto nella costituzione aveva
alti e bassi seconda del variare della fortune del re o dei Lords Ordinatori.
Senza dubbio entrambi i partiti lottavano per fondare un consiglio senza
aggettivi, ma i baroni cercavano di renderlo magnum e il re di mantenerlo secretum,
e c'era poco in loro che fosse riscontrabile nel loro prodotto finito. Un
partito partorì l'istituto dei pari, l'altro partorì il Consìglìo privato.
«Il Consiglio è stato il
crogiolo dei principi costituzionali e delle fazioni in lotta. Chi doveva avere
la supremazia: il re o i baroni, o - meno di tutti - i Comuni? Dipendeva da
questa questione se il Consiglio sarebbe diventato un consiglio privato, un
magnum concilium, o un gabinetto moderno, e l'Inghilterra un'autocrazia, una
oligarchia o una democrazia.
“Sotto Edoardo II la
contesa si svolse all'aria aperta e qualche volta sul campo di battaglia. Ma
Edoardo III fu abbastanza forte da evitare scismi nel governo, e la lotta si
svolse dietro le quinte » (22).
La minore età di Riccardo II diede ai nobili
l'opportunità di impadronirsi del Consiglio segreto o continuo, il quale - per
il numero ristretto di persone che vi sedevano - diventa un vero e proprio
esecutivo che governa il paese in nome del re. Quando Riccardo riesce a
liberarsi dalla tutela dei suoi zii, e il suo tentativo di instaurare una
monarchia assoluta ha successo, dal Consiglio vengono estromessi tutti gli
elementi che gli erano stati imposti, o che aveva dovuto includervi per
stabilire un equilibrio tra le forze dominanti del paese, ed esso sarà formato
da funzionari reali che attueranno la politica del re (23).
«L'ascesa al trono di Enrico IV, sanzionando
il trionfo della nazione oligarchica contro il tentato dispotismo del suo
predecessore, diede vita ad un nuovo genere di Consiglio, o piuttosto esso
fece rivivere la supremazia dei baroni nel raro Gran Consiglio e condusse al
controllo finale del Consiglio continuo da parte degli stessi elementi. Se,
dopo la morte di Enrico IV, il Gran Consiglio cessò di riunirsi e di
influenzare la vita politica, sia direttamente che attraverso il suo peso in
parlamento, questo avvenne in gran parte perchè Enrico IV aveva volontariamente
acconsentito alla richiesta di istituire un Consiglio ristretto o continuo,
composto - in massima parte - da grandi funzionari, da prelati e da grandi
feudatari (Lords).
«Sebbene il lavoro del
Consiglio fosse svolto principalmente dai grandi funzionari dello stato o della
casa reale, che si riunivano quasi regolarmente, essendo questi funzionari
essi stessi magnati, solo l'esperienza di Enrico IV e la popolarità e le
attività belliche di Enrico V evitarono che gli interessi del Consiglio
divergessero da quelli della corona.
« La minorità di Enrico
VI fornì ai magnati una chance: quando grandi uomini, come Bedford, Gloucester
e Beaufort, sedevano personalmente nel Consiglio per sbrigare gli affari di
routine quotidiana, come per trattare i più importanti problemi del regno -
interni ed internazionali - e lo usavano per condurre la loro lotta per il
potere, essi davano a quest'organo - con la stessa assiduità della loro
presenza - un'importanza rinnovata. Questo fu il periodo in cui il potere e il
prestigio del consiglio medievale si può dire abbiamo raggiunto il massimo
livello. I Magnati, che per un trentennio avevano conquistato per se stessi la
funzione consultiva ed esecutiva, lavoravano - per la maggior parte - per
soddisfare le loro ambizioni personali e usavano la loro posizione nel
consiglio per controllare le leve dello stato nel proprio interesse o in
quello dei loro seguaci. Questo, alla fine, portò al recupero del potere reale
- quando Enrico VI divenne maggiorenne - e alla caduta del consiglio, che venne
esautorato dal re, e quindi non era più idoneo per essere usato come arma di
lotta per le fazioni. In un certo senso, il ricorso alla guerra civile, dopo il
1450, era inevitabile poichè Suffolk e Somerset non potevano più usare il
consiglio » (24) come campo di battaglia per saziare la loro sete di potere.
« La vittoria di Enrico VI... aveva spogliato
il consiglio della sola attrattiva che possedeva per un'aristocrazia egoista e
arrampicatrice: l'ambizione personale, quando non potè raggiungere più i suoi
scopi nel consiglio, fece ricorso ai campi di battaglia. Dopo la caduta del
duca di York nel 1455... la guerra civile scoppiò furiosa e per un certo
periodo il governo e l'amministrazione dello stato caddero nell'ombra » (25).
Ma lo stesso York, non appena consolidò la
corona sulla sua testa, mise fine alla pretesa dei nobili di avere il controllo
del Consiglio per governare il paese, formando un Consiglio allargato di sua
scelta, composto principalmente da funzioanari reali. Questo Consiglio si
riuniva in periodi fissi dell'anno per sbrigare gli affari più importanti e per
amministrare la giustizia che ricadeva sotto la sua competenza. Negli altri
periodi dell'anno il re era assistito da un numero ristretto di consiglieri, ai
quali erano affidati i vari settori dell'amministrazione.
Enrico Tudor, alla sua
ascesa al trono, si riallacciò direttamente all'esperienza del suo predecessore
Edoardo IV. Il numero dei consiglieri che lo assisteva, e lo seguiva in tutti i
suoi spostamenti, costituiva l'esecutivo attraverso il quale egli governava
paese. In questo nucleo ristretto di consiglieri, che qualcuno fa rassomigliare
a un gabinetto (26), i grandi nobili erano pochissimi « Enrico VII impiegò, fin
dove poteva farlo, soltanto ecclesiastici uomini di legge; e gli ecclesiastici
costavano poco, poichè essi potevano essere pagati con una promozione
nell'ambito della chiesa » (27). Alle sedute del Consiglio partecipavano « di
solito tra sei e dieci » (28) consiglieri, anche se ufficialmente il loro
numero totale - superava, a volte, i quaranta.
Alla sua morte, Enrico VIII, tutto dedito
alle gioie della vita, lasciò il governo alle cure di questo organo ristretto
di consiglieri della corona. «Istituzionalmente parlando anche il suo unico consiglio
era quel pletorico organico di consiglieri, le cui riunioni periodiche venivano
registrate dal funzionario del consiglio, ma è dimostrato che all'inizio del
regno [ e fino al 1514] i consiglieri più attivi incominciarono a riunirsi con
grande regolarità e formalità.
L'ascesa di Wolsey, comunque, fece cadere
sul nascere qualsiasi possibilità per questo gruppo di svilupparsi in
un'istituzione genuina: fino alla caduta di Wolsey [1529] l'unico vero
consiglio rimase quell'organo pletorico e intermittente che era stato
caratteristico nel passato. Wolsey usurpò per se stesso le funzioni di quel
nueleo ristretto di consiglieri (insieme a quelle dello stesso re) » (30). Il
Consiglio generale continuò a riunirsi con regolarità, ma soltanto per svolgere
la sua funzione giurisdizionale: quella politico-amministrativa fu assunta
personalmente dal cardinale.
A differenza di Edoardo
IV, che in ventidue anni di regno convocò solo sette parlamenti, Enrico VII,
nei suoi primi anni di regno, sembrava riprendere la tradizione dei suoi avi
lancasteriari e governare il paese attraverso e con il costante sostegno del
parlamento 31. Nei primi tredici anni lo convocò quasi regolarmente. In questi
anni egli aveva bisogno di consolidare la sua posizione all'interno e
proseguire, suo malgrado, la politica continentale dei suoi predecessori. Ma
egli si rendeva conto, interpretando perfettamente i sentimenti del suo popolo
che voleva dedicarsi pacificamente ai suoi commerci, che - per stabilire una
monarchia forte - aveva bisogno di far cessare lo stato di belligeranza
continentale e di acquisire un'autonomia finanziaria che la rendesse non pfù
soggetta alle contribuzioni straordinarie del parlamento.
Egli raggiunse entrambi
gli obiettivi. Il primo gli costò la mancata difesa dei diritti
dell'Inghilterra sulla Bretagna. Per raggiungere il secondo egli fece approvare
una legge che prevedeva la restituzione di tutte le terre che la corona aveva
alienato a partire dal 1455, confiscò le terre a tutti coloro che avevano
partecipato alle ribellioni 1yorkis'e nei primi anni del suo regno e diede vita
ad un nuovo metodo di contabilità di stato che « controllava in prima persona
» sz.
Raggiunta l'autonomia
finanziaria, grazie anche alla concessione a vita del dazio doganale e ad un
sussidio che gli passava il re di Francia per il mantenimento della pace, egli
fece a meno di convocare il parlamento. Negli ultimi undici anni di regno lo
convocò una sola volta, nel 1504. Ma nello stesso tempo si guardò bene
dall'arrogarsi i suoi poteri.
« Sotto i Tudor il
pericolo è di un altro genere - non tanto che il re voglia imporre la
tassazione senza il consenso del parlamento, ma che il parlamento dia il suo
consenso a tutto ciò che il re vuole e condoni i suoi atti illegali. Nel 1491,
Enrico VII aveva imposto una "benevolenza" che gli aveva fruttato una
grossa cifra. Molto probabilmente le legge di Riccarco III era considerata
nulla perchè era l'atto di un usurpatore, sebbene essa rimanesse sancita nel
registro degli statuti. Ma comunque il parlamento del 1495 rese legale questa
benevolenza ex post facto; con uno statuto. al re fu dato il potere di far mantenere
la promessa a tutti coloro che avevano promesso del denaro, ma non l'avevano
versato. Una tale legge - estremamente pericolosa per le libertà della nazione
- fu ciò nonostante un alto esercizio della sovranità del parlamento: esso
rese legale ciò che era stato illegale. Questa è una peculiarità del periodo
Tudor molto rimarchevole » (33).
Nel 1523 il parlamento
sembra voglia resistere alle eccessive richieste di Enrico VIII, e in effetti
gli vota una somma molto inferiore (34) a quella richiesta dal suo cancelliere,
cardinale Wolsey. ma poi nel 1529 vota una legge con la quale si cancellavano
(suscitando le proteste di molti strati della popolazione) tutti i prestiti
forzosi a cui il re aveva fatto ricorso sin dal 1522 per far fronte alle sue
necessità finanziarie. Nel 1543 una nuova legge cancellò il prestito forzoso a
cui la corona era ricorsa l'anno precedente e stabilì che tutte le somme
restituite nel frattempo dovevano essere riversate al re.
L'atteggiamento di Enrico VIII verso il
parlamento sembra voglia ricalcare - nella prima parte del regno - l'esperienza
di suo padre. Fino al 1515, esso fu convocato quasi regolarmente ogni anno;
poi, fino al 1529, viene convocato una sola volta, nel 1523. In tutti questi anni
la vita politica e amministrativa del regno è dominata dalla grande figura del
cardinale Wolsey che occupa la carica di cancelliere. Wolsey è il primo di una
classe di funzionari statali che saranno innalzati alle più alte cariche dello
stato e diventeranno gli uomini più potenti del regno, dopo il sovrano, ma egli
sarà anche l'ultimo ecclesiastico - tranne una sola eccezione - che occuperà la
carica di cancelliere per tutto il XVI secolo. Tutti gli altri saranno di
origine borghese. «La crescita di questa classe di funzionari statali, che
dipende interamente dalla corona, e che la garantisce contro la rinascita del
potere dei Lords all'interno del consiglio reale, è un fattore molto importante
nel periodo Tudor » (35) . Essa farà le fortune dello stato. Il primo borghese
ad essere innalzato alle più alte vette del potere è Tommaso Cromwell, l'uomo
che sarà il regista dello scisma anglicano.
Enrico VIII sale al trono giovanissimo. E'
forte, bello ed ambizioso. Ama la vita e tutto quello che essa può offrire
(36). Le fatiche del governo le lascia ai suoi ministri; ma ben presto si
lascia attrarre dal miraggio della gloria e si tuffa nella politica europea,
alleandosi prima con Ferdinando di Spagna, suo suocero, e poi con l'imperatore
Carlo V, suo zio.
Per condurre questa politica di potenza,
egli ha bisogno di soldi e - sebbene suo padre gli abbia lasciato i forzieri
pieni - egli è costretto a fare ricorso al parlamento, il quale si dimostra
recalcitrante a seguirlo in questa politica continentale che tanti guasti aveva
causato all'Inghilterraa nel passato.
Il parlamento era stato ossequioso alla
volontà di Enrico VII perchè egli era stato un sovrano che aveva abbandonato
qualsiasi ambizione di fare dell'Inghilterra una potenza continentale e si era
dedicato al non facile compito di raccogliere risorse finanziarie per garantire
la sicurezza interna dello stato e dare al suo popolo quella pace che gli era
mancata negli ultimi centocinquant'anni, con la guerra dei cento anni prima e
con la guerra civile poi. Ma non era disposto ad essere altrettanto ligio alla
volontà di suo figlio che voleva riportare l'Inghilterra nell'arena
continentale, con tutto ciò che questo significava.
Se il parlamento non poteva e non voleva
essere il sostenitore della politica del re, il nuovo astro sorgente della
politica inglese, cardinale Wolsey, consiglia al re di metterlo da parte e di
risolvere il problema finanziario per altre vie e con altri mezzi. Quindi si
fa ricorso alle benevolenze, alla tassazione sul commercio estero e, infine, ai
prestiti forzosi. I legali Tudor dichiarano pienamente legale la tassazione
sulle importazioni perchè essa ricade su soggetti stranieri e dichiarano
altrettanto legale la tassazione all'esportazione in base alla prerogativa
regia di regolamentare il commercio.
Il parlamento « sotto Enrico VII e Wolsey
aveva perduto parte del proprio prestigio. Se la storia inglese avesse
continuato a svolgersí come un ramo della storia europea, invece di
staccarsene procedendo per proprio conto, questa decadenza sarebbe continuata
finchè il parlamento inglese non avesse seguito nell'oblio gli
"Stati" medievali della Francia e della Spagna. Ma Enrico VII decise
in modo diverso » . La sua decisione di fare del parlamento il fulcro del
potere reale fu dettata dalla congìuntura polìtìca interna ed internazionale.
Egli aveva sperato, per lunghi anni, di avere da Caterina, sua moglie 38, un
figlio che garantisse la coninuìtà della dinastia in modo da assicurare
all'Inghilterra un governo forte ed evitare possibili dispute sulla
successione. Egli ricordava quali sconvolgimenti aveva portato la guerra civile
delle due rose, alla quale suo padre aveva posto fine.
Caterina, dal 1510 al 1518, aveva partorito
sei figli, i quali nacquero morti o morirono nelle primissima infanzia, tranne
Maria, nata nel 1516. Lentamente, ma progressivamente, si incominciò ad
insinuare nella mente dì Enrico la convinzione che la dispensa papale non fosse
stata sufficiente per evitare la maledizione biblica che « chi sposa la moglie
di suo fratello fa cosa illecita: ha rilevato l'ignominia di suo fratello: non
avranno figli » (39). Tuttavia, egli continuò a sperare e fece voto di
condurre una crociata contro i Turchi se la moglie gli avesse partorito un
figlio. Nel 1525 egli perse ogni speranza di avere altri figli da Caterina. La
sua prima reazione fu quella di portare alla ribalta il suo unico figlio
naturale e crearlo duca di Richmond e Somerset, dandogli la precedenza su Maria
nella successione al trono. Ma egli sapeva che questo costituiva un diritto
molto debole per essere riconosciuto re; che una donna potesse salire al trono,
e garantire un governo forte ed efficiente, era un'incognita. Già qualche anno
prima, la mancanza di un erede maschio, aveva fatto accarezzare l'idea ai duchi
di Norfolk, Suffolk e Buckingham, di spodestare Maria - una volta salita al
trono - ed impadronirsi della corona.
« Il duca di Norfolk
avanzava un diritto per parte di sua moglie, figlia di Edoardo IV, e il duca di
Suffolk da parte della sua duchessa, sorella di Enrico VIII. Ma quello del duca
di Buckingam era il più formidabile...
Egli discendeva direttament da Edoardo II » (40). Dei tre, quest'ultimo era il
più pericoloso e anche il più
compromesso. Nel 1521 egli fu giustiziato sotto l'accusa di alto tradimento.
« L'esecuzione di Buckingham è uno dei sintomi
che la mancanza di un erede aveva reso, sin dal 1521, Enrico nervoso e
suscettibile sul tema della successione » (41). Poichè le altre strade non gli
sembravano percorribili, Enrico adottò subito una politica più drastica. Egli
si convinse che, malgrado la dispensa di papa Giulio II, il suo matrimonio era
nullo ed incaricò il cardinale Wolsey di
prendere i necessari contatti con Roma per ottenerne l'annullamento.
I papi, nel passato, avevano concesso annullamenti
a sovrani regnanti che adducevano come
motivo la sola ragione di stato, ma nel caso di Enrico la situazione politica
europea rendeva la cosa estremamente difficile. Caterina era la zia dell'uomo
più potente del mondo allora conosciuto, l'imperatore Carlo V, il quale si opponeva all'annullamento senza il consenso
di sua zia. Nel 1527, papa Clemente VII aveva tentato di iniziare un processo
segreto, condotto dallo stesso Wolsey, inteso a sanzionare la nullità del
trono. Ma nel frattempo Carlo V aveva mandato i suoi lanzichinecchi in Italia,
i quali misero a sacco Roma e tennero il
papa prigioniero a Castel Sant'Angelo. Le udienze di Wolsey, di
conseguenza, cessarono.
Da questo momento il papa è nelle mani del
nipote di Caterina, la quale continua ad opporsi all'annullamento. Clemente
VII, per tenere buono Enrico, cerca di prendere tempo mandando in Inghilterra
il cardinale Campeggio, con l'incarico di decidere la causa, ma segretamente ha
istruzioni di rimandare tutto a Roma se una formula di compromesso si
dimostrava impossibile.
Nel 1529 Campeggio aggiornò la corte per le
vacanze estive. Clemente VII ne approfittò per avocare la causa a Roma secondo
desideri di Carlo V. Enrico reagì licenziando Wolsey, l'uomo che aveva servito
fedelmente per oltre quindici anni, ma che aveva fallito nel compito più
importante, e adotta una nuova politica; premere sul papa minacciando di
mettere ìn discussione la giurisdízione di Roma sulle rendite della Chiesa
d'Inghilterra. A questo scopo convocò ìl famoso parlamento di novembre. Le
intenzioni originarie non andavano oltre questa progettata minaccia. La riforma
religiosa della chiesa non rientrava nei suoi piani. Egli era stato, era e
sarebbe rimasto per tutta la vita, un convinavversario della riforma protestante
di Lutero, contro la quale aveva scritto, nel 1521, un libretto che gli aveva
guadagnato il titolo pontificio di Defensor Fidei, « di cui i re d'Inghilterra
anche oggi si fregiano » (42).
« I cambiamenti
dottrinari che avvennero sotto Edoardo VI ed Elisabetta erano conseguenze
impreviste, ad essi Enrico e ìl suo parlamento si erano dichiarati fortemente
contrari » (43). Egli voleva attaccare il potere economico della Chiesa dì
Roma, privandola delle rendite di una delle sue più ricche province. Già nei
secoli passati nel parlamento sì erano combattute aspre battaglie per eliminare
o quanto meno limitare lo strapotere della chiesa romana su quella inglese, la
quale veniva spesso usata per assicurare ricchi benefici ad ecclesiastici
romani che quasi raramente risiedevano in loco. Inoltre il paese era pervaso
da un forte sentimento anticlericale che aveva avuto in Wicliffe - nel XIV
secolo - il suo antesignano religioso e in Giovanni di Gaunt il suo learder
politico.
Convocando il parlamento, Enrico VIII era
sicuro di dare alla sua nuova politica la più alta sanzione legale senza
incontrare opposizione. I vescovi e gli abati, che formavano la maggioranza
della Camera dei Lords, dovevano, nella quasi totalità, la loro investitura al
lungo servizio a corte e nella diplomazia reale. I Comuni, nelle cui file lo
spirito dei lollardi non era mai scomparso, avevano sempre attaccato
l'eccessiva ricchezza della chiesa e in segreto speravano di mettere le mani
sui grossi latifondi dei monasteri.
Ma, nello stesso tempo, convocando il
parlamento, Enrico VIII aveva messo in moto un ingranaggio che avrebbe condotto
alla riforma religiosa. Nel primo anno
di vita, il parlamento si limitò ad approvare alcune leggi che regolavano
aspetti minori del problema. Ancora il re e il parlamento non intendevano
andare al di là dell'aspetto politico della questione, ma nel frattempo il papa
aveva reagito divulgando una «breve» che proibiva ad Enrico di risposarsi e
ordinava che Caterina fosse restituita ai suoi onori di regina finchè la causa
non fosse stata decisa.
Nel 1531 il re accusò il clero di aver
violato la legge di premunire. «In un primo momento il clero si illuse che se
la sarebbe cavata con una concessione di 40.000 sterline; ben presto, però,
apprese che quella somma non bastava e fu costretto ad elevarla a 100.00
sterline pagabili in cinque anni. Ma neanche tanta remissività e tanto denaro
erano sufficienti [per calmare il re e neutralizzare il suo decreto di accusa]
: il 7 febbraio 1531 fu comunicato alla Convocazione del clero che il denaro
non sarebbe stato accettato senza il riconoscimento di Enrico come Protettore e
Capo Supremo della Chiesa e del clero inglese: questo era troppo, ma dopo una
certa opera di convinzione, la chiesa e il clero riconobbero il re come
Protettore e Capo Supremo della Chiesa e del clero inglese » (46). Il clero,
tuttavia, aveva cercato di mitigare la sua capitolazione con la formula « fin
dove lo consente la legge di Cristo », che esso aggiunse a quella voluta dall
re.
Per Enrico VIII la strada era aperta per
avere, più tardi, un simile, ma di più vasta portata, riconoscimento dal
parlamento. Intanto Enrico aveva trovato in Tommaso Cromwell, un laico che
occupava la carica di Segretario del re, « il progenitore del moderno
Segretario di Stato » (47), un abile e astuto regista dei lavori parlamentari.
Sotto la sua regia sarà approvata tutta le legislazie che sanzionerà il
distacco della Chiesa inglese da quella di Roma.
Il primo attacco al potere di Roma in
Inghilterra fu sferrat nel 1532 con la legge contro il pagamento delle annate e
con la « Supplica contro gli Ordinari ». La prima dichiarò le annate una: «
grava perdita per la nazione e quindi proponeva di abolirle ». La seconda era
una protesta intesa ad ottenere la sottomissione dei clero (verificatesi per
legge nel 1534) al potere legislativo del parlamento, negando qualsiasi potere
legislativo o regolamentare alla Convocazione del clero. Prima di tale data, la
convocazione era la sola competente a legiferare in materia religiosa.
Nel 1533 fu approvata la legge sul « Divieto
di appellarsi a Roma » che recideva, in modo netto, tutti i vincoli della
chiesa d'Inghilterra con i tribunali della curia romana e la rendeva capace di
decisioni autonome. Questa legge era l'atto necessario ed indispensabile perchè
l'arcivescovo di Canterbury, quale primate di Inghilterra, fosse abilitato a
dichiarare nullo il matrimonio di Enrico. L'annullamento fu pronunciato nel
maggio del 1533 e in luglio il papa scomunicò il re, dopo aver dichiarato nullo
il suo matrimonio con Anna Bolena ed illeggittimi tutti i figli che potessero
venire dall'unione.
Nel 1534 la supremazia del sovrano fu
completata con l'approvazione dell'Atto di Supremazia, che definì il re « Capo
Supremo in terra della chiesa d'Inghilterra chiamata Anglicana Ecclesia » e gli
conferì anche il potere di « reprimere, riformare correggere...
le eresie, gli abusi, gli errori»` in cui poteva cadere il clero. Nel frattempo
ragioni politiche e finanziarie consigliarono di attaccare i grossi latifondi
della chiesa. « Il Parlamento della Riforma, che aveva fatto tanto per
aumentare il potere di Enrico,
non gli fece che scarse concessioni di denaro; tuttavia il denaro serviva
urgentemente.
Sebbene la guerra non
rientrasse nella politica del governo ci si preoccupava per la difesa del
regno” (51) da possibili attacchi esterni. Nel 1536, dopo aver fatto un
censimento di tutte le proprietà ecclesiastiche, fu decisa la dissoluzione dei
piccoli monasteri. Essi venivano sciolti perchè, questa la motivazione
ufficiale, erano diventati luoghi di corruzione, di mondanità e di scandalo.
Tra il 1537-40 si ottenne, attraverso
pressioni e blandizie, la dissoluzione dei monasteri più grossi. Per il 1540
tutta la proprietà ecclesiastica era nelle mani del re che la cedette - in dono
o -dietro pagamento di una cifra non rilevante - alle forze che lo avevano
appoggiato fedelmente nella sua lotta. « I risultati di questa politica erano:
1) i nuovi proprietari delle terre monastiche erano impegnati, dal più forte
vincolo dell'interesse privato, ad apporsi alla restaurazione del dominio
papale sull'Inghilterra; 2) l'aristocrazia territoriale si era rafforzata con
la consistente infusione di ricchezza tra la nuova e la vecchia, ma decaduta, nobiltà;
3) la terra divenne, più che nel passato, un articolo di compravendita » (52).
Nel 1536, Cromwell venne nominato vicario
generale della Chiesa d'Inghilterra. Egli era diventato l'uomo più potente d'Inghilterra,
dopo il re. La Riforma
per lui non era andata avanti abbastanza. Egli spingeva affinchè essa prendesse
un aspetto protestante e tra il 1536 e il 1538 furono emanate delle Ingiunzioni
che andavano in questa direzione: si ordinò alle parrocchie l'uso della bibbia
inglese, si attaccò la pratica eccessiva dei pellegrinaggi e del culto delle
immagini, si tentò di riformare il clero. Ma Enrico non voleva una chiesa
protestante, la voleva cattolica, ma non romana. I nemici di Cromwell ne
approfittarono per far approvare l'Atto dei Sei Articoli che riaffermò la
fedeltà alla dottrina cattolica. Cromwell perderà il posto e la testa nel 1540,
quando il matrimonio di Enrico con la protestante Anna di Cleve, da lui voluto,
si dimostrò un fallimento.
Sotto Enrico la chiesa
anglicana rimarrà fedele alla dottrina cattolica. Essa sarà attratta
nell'orbita protestante sotto il regno di suo figlio Edoardo VI, per ritornare
cattolica e romana con Maria, finchè Elisabetta non sceglierà un corso
intermedio tra protestantesimo e cattolicesimo.
« La rottura con Roma portò con sè una vera e
propria rivoluzione costituzionale, alla quale si dovette l'istituzione dello
stato nazionale indipendente, la riforma dell'amministrazione e l'attuazione
del principio della sovranità legislativa » (53).
Quando il parlamento del 1529 iniziò i suoi
lavori era un organo medievale con competenze precise, ma limitate, derivategli
dalla lunga tradizione e con un'organizzazione indefinita e una procedura
embrionale. Il parlamento che uscì dalla riforma è un parlamento moderno: la
sua articolazione bicamerale si è potenziata e rafforzata con la nuova
fisionomia assunta dalla Camera dei Lords e con l'entrata della Camera bassa
nella sede ufficiale del parlamento, da cui finora era stata esclusa; la sfera
dei suoi poteri si è ampliata fino ad abbracciare tutte le manifestazioni
politiche, sociali e spirituali dell'uomo e del cittadino.
Esso divenne onnicompetente: « il potere
più alto del regno d'Inghilterra... Abroga le leggi vecchie, ne fa di nuove,
mette ordine alle cose passate e in quelle future, cambia i diritti civili e il
diritto di proprietà dei cittadini, legittima i bastardi, stabilisce la forma
della religione, stabilisce il peso e le misure, fissa ìl diritto di
successione della corona, stabilisce sussidi, taglie, tasse e imposizioni,
concede perdoni ed assoluzioni..., ha il potere dell'intero regno... Poichè si
intende presente in assemblea, di persona o attraverso i suoi rappresentanti,
ogni singolo inglese di qualsiasi ceto sociale.., dal principe (sia egli re o regina)
alla più umile persona d'Inghilterra. E il consenso del parlamento è
considerato il consenso di tutta la nazione » (54).
Di questo ampliamento di poteri il
parlamento non ne fu l'artefice, ma ne fu investito dalla corona per soddisfare
le sue necessità e la sua volontà di dare veste legale alle sue azioni contro
il papato prima, contro gli ordini religiosi poi e contro i nemici interni.
«Questo carattere peculiare del dispotismo di Enrico, la sua ansia di fare
tutto in corretta forma parlamentare o propria giudiziaria, mentre degradava le
istituzioni parlamentari e giudiziarie in quel momento, in realtà fece
moltissimo per rafforzarle e preservarle
per tempi migliori » (55).
Il parlamento sotto
Enrico VIII non ebbe alcuna capacità di iniziativa: esso fu completamente
dominato dalla corona che gli sottoponeva tutta la legislazione che essa
intendeva fargli approvare. E' vero che non sempre esso accettava
acriticamente tutte le proposte di legge presentate dal governo; qualche volta
le modificava esercitando un potere che lo stesso re non poteva disconoscergli,
ma raramente le respingeva in blocco.
«Ho incontrato un solo
esempio nel suo regno in cui i Comuni rigettarono un disegno di legge
presentato dalla corona. Ciò accadde nel 1532; ma i diritti del parlamento erano tanto inequivocabili che Enrico
VIII - sebbene a malincuore - dovette cedere » (56). Il canale di collegamento
tra la corona e il parlamento era costituito dai ministri della corona, membri
del Consiglio reale. Quest'organo, che sotto Wolsey aveva accentuato la sua
natura di forma giurisdizionale di tribunale della Camera Stellata,
mortificando le sue funzioni
politico-amministrative che erano esercitate direttamente dal Cardinale, con
Tommaso Cromwell diventa, per volontà di quest'ultimo, un vero e proprio
esecutivo composto da un numero
ristretto (diciannove) di ministri e presieduto - quando il re era assente, il
che avveniva spesso - dal Lord Cancelliere. La nascita di questo consiglio
ristretto, meglio conosciuto come Consiglio Privato, fu istituzionalizzata nel
1540 con la nomina di un segretario-funzionario addetto alle sue riunioni,
mentre il funzionario-segretario del vecchio consiglio continuò a svolgere le
sue le sue mansioni presso il Consiglio (tribunale) della Camera Stellata.
Una riforma del consiglio
- simile a quella attuata da Cromwell - era stata già prefigurata da Wolsey
che, con le ordinanze di Eltham del 1526, aveva istituto un consiglio di venti
membri, ma essa rimase sulla carta per volontà dello stesso Wolsey che la
svuotò subito di contenuto per conservare inalterato il suo potere.
I consiglieri della
corona avevano conservato l'antico diritto di sedere nella Camera alta. Questa
Camera, infatti, era l'erede direttta del Gran Consiglio del regno dei tempi
medievali. Al Gran Consiglio, come abbiamo visto, partecipavano non solo l'alto
clero e l'alta nobiltà, ma anche i consiglieri - laici ed ecclesiastici -della
corona. E questa era una consuetudine che risaliva al periodo anglosassone nel
cui Witenagemote gli ufficiali di corte sedevano di diritto insieme alle altre
due classi sociali. Quando il Gran Consiglio si trasformò in parlamento, i
consiglieri della corona continuarono a sedere nella Camera alta insieme
all'alta nobiltà e all'alto clero. Al tempo dei primi Tudor l'elemento
maggioritario ìn questa Camera era l'alto clero.
La
Riforma rivoluzionò la fisionomia interna della Camera dei
Lords. La dissoluzione dei monasteri aveva tolto agli abati il diritto dì
sedere ìn parlamento. La loro scomparsa fece pendere la bilancia del numero a
favore dell'elemento laico, anche se ìl re si era preoccupato di compensare la
loro uscita con la creazione di sei
nuovi vescovi. Una legge del 1539, infine, espulse o negò il diritto a tutte quei membri che per
un motivo o per l'altro (appartenenza al consiglio del re, detentore di
importanti incarichi nell'amministrazione, ecc.) sedevano nella Camera, ma
erano di rango inferiore al barone.
Esclusi come membri attivi della Camera
alta, i membri del Consiglio Privato «furono salvati dalla Camera dei comuni, e
i collegi elettorali diedero il benvenuto a coloro i quali erano stati respinti
dai pari... E' una strana inversione della storia parlamentare, e la vera
novità del periodo Tudor non era che i consiglieri sedessero in parlamento, ma
che vi sedessero come rappresentanti eletti e non come membri di nomina
reale... Il cambiamento aveva due aspetti: i consiglieri sedevano nella Camera
dei Comuni invece che nella Camera dei Lords ed essi vi sedevano come membri
eletti [dal popolo]... Il cambiamento... è importante perchè esso segna il
riconoscimento della crescente importanza della Cameraa dei Comuni e
dell'elemento popolare nella costituzione...
“Probabilmente il trasferimento dei
consiglieri dalla Camera alta alla Camera bassa fu un atto volontario piuttosto
che una costrizione, ed essi liberarono il loro posto nella Camera dei Lords
perché scorgevano più ampie possibilità nella Camera dei Comuni. Nella Camera
alta essi erano diventati assistenti, se non addirittura servitori; in quella
bassa erano più che eguali ai loro colleghi. Essi formavano l'anello di
congiunzione tra il governo e i Comuni, e fecero del loro meglio per mantenere
l'armonia tra i due. Sia Cromwell che Cecil [il futuro ministro di Elisabetta]
dovevano la loro influenza alla posizione che essi si erano saputo conquistare
nella Camera dei Comuni, ed essi riferivano regolarmente ai loro sovrani gli
umori della Camera, e alla Camera i desideri del governo... Non è
un'esagerazione dire che questa identificazione dei consiglieri privati con i
rappresentati del popolo fu una fase tanto importante nello sviluppo del
governo responsabile quanto lo sviluppo della rappresentatività stessa; poichè
il governo responsabile non fu istituito convocando i rappresentanti a
Westminster, ma immettendo quei rappresentanti nel governo o il governo in
mezzo a quei rappresentati. Se il parlamento doveva essere qualcosa di più di
un'opposizione irresponsabile, vi doveva essere unità tre esso e il governo; e
il buon governo implica la responsabilità dell'esecutivo come del legislativo.
L'esecutivo deve essere responsabile al legislativo, ma in egual misura il
legislativo deve essere responsabile per avere un buon governo. Nel medioevo si
era mantenuto un certo legame - se non proprio un'unità - attraverso la
presenza del Consiglio nel parlamento e attraverso l'assistenza che i
consiglieri e i Lords fornivano ai Comuni durante le loro riunioni nella
Chapter house'. La tendenza ad escludere i consiglieri come tali dal
parlamento minacciò una completa separazione dei poteri, e il pericolo fu
evitato nominando pari alcuni consiglieri e assicurando agli altri un seggio
nella Camera dei Comuni» (58).
L'entrata dei consiglieri
nella Camera bassa confermava e portava alla sua logica conclusione una
tendenza iniziata già nel secolo XV, quando i Comuni incominciarono ad attrarre
i talenti del regno: giureconsulti, uomini d'affari, gentiluomini, tutti cercavano
un seggio in parlamento per avanzare - attraverso la politica - nella scala
sociale.
«I seggi dei borghi divennero poco più che
un mezzo per entrare a far parte del parlamento ed entrare in politica, e
cessarono di essere un veicolo per portare la comunità a contatto con il
centro. Così la Camera
non solo acquistò uomini di una certa condizione sociale, di una certa
indipendenza, rotti alla politica e carichi di esperienza, ma poteva anche
reclamare di parlare per conto della nazione politica, un ruolo che fino alla
guerra delle due rose era stato svolto dai Lords.
In questa trasformazione della Camera dei
Comuni da organo di rappresentanti di comunità locali, investiti dal compito di
esporre al governo del re i mali che affliggevano le loro comunità, in un
partner che aspirava a partecipare nel governo politico della nazione - che è
la storia del XVI secolo - l'invasione della piccola nobiltà di campagna giocò
una parte molto importante » (59).
E' proprio questa invasione della piccola
nobiltà che sancisce l'importanza che il parlamento aveva acquistato nella vita
politica nazionale. Anche se esso è uno strumento nelle mani del sovrano che se
ne serve per perseguire i suoi scopi, esso diventa - purtuttavia - uno
strumento senza il quale il re perde molto del suo potere. Uniti, re e
parlamento, rappresentano il massimo potere nel paese; divisi, l'uno non conta
quasi nulla, mentre l'altro perde parte della sua supremazia. Questa nuova
classe politica in ascesa trovò nei parlamenti Tudor la fucina che la temprò
per le future battaglie contro gli Stuart.
I
parlamenti dei sovrani Tudor furono limitati nel numero, ma ebbero una durata -
eccezion fatta per quelli di Maria - che non trova riscontro nel passato. Essi
erano articolati in sessioni che abbracciavano di solito parecchi anni. Il
parlamento della Riforma di Enrico VIII durò sette anni, con otto sessioni; il
primo parlamento di Edoardo VI durò quattro anni a mezzo, con cinque sessioni
e il quarto parlamento di Elisabetta durò addirittura undici anni, con tre
sessioni. Questo è molto importante per lo
sviluppo e l'affermazione della nuova classe politica che ha così la
possibilità di acquisire esperienza e impadronirsi della sottile arte di
governo.
Nel passato raramente i parlamenti tenevano
più di una sessione e raramente prima del XV secolo i membri di un parlamento
venivano rieletti nel successivo. Questo era giustificato dal fatto che la
rappresentanza parlamentare era vista e considerata come un dovere e quindi
ogni membro cercava di evitare la propria
rielezione, anche se gli venivano rimborsate le spese e gli veniva
versata una diaria (che variava da contea a contea) per il lavoro svolto a favore della comunità. Quando,
invece, esser membro del parlamento dava
dei benefici di varia natura, non solo si cercava l'elezione, ma si brigava per
essere costantemente riconfermato.
Questo portò alla formazione di una classe politica professionale che
aveva tanto potere quanto più ne acquistava il parlamento. I Tudor seppero
soddisfare le aspettative di questa classe cedendo nella forma, ma dominandola
nella sostanza. Gli Stuart non sanpranno farlo e questo provocherà la loro
rovina.
Il parlamento sotto Enrico VIII era docile ai
desideri del re e non esercitava
alcun potere di iniziativa, ma si limitava ad approvare, modificare ed
eventualmente - e rarissimamente – rigettare le proposte del re. Questo può
essere spiegato in due modi, entrambi importanti: 1) il parlamento muoveva i
primi passi sul terreno di un potere senza limiti, e quindi 2) aveva bisogno di
una leadership che lo guidasse e
lo sostenesse; inoltre esso era impegnato in una grande battaglia, decisiva per
la storia dell'isola.
Questo creava una grande
tensione ideale in tutti i suoi membri, i quali avevano coscienza di
partecipare a grandi eventi. In un clima di grande tensione ideale si ha il bisogno di un capo carismatico che guidi
con decisione e sicurezza verso gli obiettivi prefissati. Un simile parlamento
era per forza e per necessità interna uno strumento docile nelle mani del re
che aveva saputo creare questo clima di grande crociata, riportando
drammaticamente alla ribalta un vecchio sentimento anticlericale e antipapale
che era sempre serpeggiato nella storia inglese.
Questa docilità assoluta,
tuttavia, scomparve con Enrico. I suoi figli, infatti, « non riuscirono a mantenere
il suo dominio sul parlamento» (60). Edoardo VI era un re bambino, le cure
effettive del governo furono affidate al Consiglio Private dominato dai suoi
zii. Maria non godeva le simpatie parlamento che aveva fatto la riforma.
Tuttavia, esso la segui fin dove poteva seguirla e molte leggi approvate nei
regni precedenti furono abrogate, dando una sterzata in senso cattolico alla
chiesa d'Inghilterra. Ma, nello stesso tempo, i Comuni rigettarono molte
misure avanzate dalla corte. « Ella, infatti, sciolse i suoi primi parlamenti
per questi motivi. Ma il terzo era ben lontano dall'essere ossequioso; esso
respinse parecchie proposte a cui teneva molto. Due ragioni contribuivano a
questa opposizione una, facendo rivivere la supremazia papale, la paura di fare
ripiombare sul paese quella moltitudine di obblighi, di cui tante generazioni
si erano lamentate, e in particolar modo la restaurazione delle terre delle
abbazie; l'altra, una grande ripugnanza per le relazioni spagnole della regina.
Se Maria avesse potuto ottenere il consenso del parlamento, avrebbe dato la
corona a suo marito e, forse, avrebbe mandato sua sorella al patibolo » (61).
Sotto Elisabetta le condizioni non erano
diverse. Fino al 1588 regina e parlamento furono uniti, tranne alcuni (pochi)
momenti di tensione, nella lotta contro la potenza spagnola che minacciava di
invadere l'isola; dopo la sconfitta della Grande Armada, acquistata la
sicurezza esterna dello stato, il parlamento incominciò a prendere piena
coscienza delle proprie possibilità e del proprio ruolo nella vita
istituzionale dello stato. Esso era la sede del potere supremo. La sua
timidezza nei rapporti con la sovrana era dettata dal rispetto per la grande
regina « avanti negli anni », ormai assurta a «simbolo nazionale, che aveva
saputo garantire l'ordine all'interno e aveva sconfitto la più grande potenza
di quell'epoca » (62).
Il parlamento ormai, era pronto per
camminare per proprio conto, per pensare per proprio conto e per agire per
proprio conto, senza limitarsi ad eseguire la volontà della sovrana. Esso mal
sopportava l'atteggiamento della regina che lo trattava come un bambino discolo
` a cui alcune cose sono permesse e
molte altre vietate. Esso voleva discutere e deliberare liberamente su
tutti i problemi dello stato, proponendo la propria autonoma visione delle
cose. Lo scontro con la regina, se di scontro si può parlare, nasceva da queste
due concezioni: una regina che vuole conservare come propria prerogativa alcuni
problemi dello stato (la religione, la successione al trono, la politica
estera, la regolamentazione del commercio, il rilascio di patenti di
monopolio, ecc.) e un parlamento che sente di essere e vuole essere
onnicompetente.
« La partnership tra la corona e i Comuni,
voluta da Enrico VIII (per sua esclusiva convenienza), stava subendo una certa
modificazione... Non si trattava più per i Comuni di rigettare o emendare le
misure del governo, come avevano fatto sotto Enrico, ma di proprorre le proprie
idee. Nel nome della libertà di parola i Comuni in effetti reclamavano un
eguale diritto di iniziativa a quello della corona e dei suoi ministri » (64).
La libertà di parola nel passato era goduta
dal solo Speaker che la rivendicava al momento del suo insediamento. Il primo
Speaker che la rivendicò, nel 1523, non solo per sè, ma per tutti i membri del
parlamento, fu Tommaso Moro, il futuro cancelliere e futuro martire. Sembra che
Enrico VIII abbia lasciato una libertà di parola e di dibattito piuttosto
ampia, anche se formalmente non riconosciuta. Nel parlamento del 1523 troviamo
il primo esempio di un ampio dibattito parlamentare su tutti i problemi
politici e non politici dello stato, anche se, alla fine, questo libero
dibattito non sfociò in alcun provvedimento concreto (65).
Sotto Elisabetta la libertà di parola era
molto limitata. L'oratore doveva attenersi al tema in discussione (che era
stato propasto dal governo) e doveva usare un linguaggio che non fosse
spiacevole alla regina.
Nel 1576 il deputato Pietro Wentworth in un
suo discorso lamentò che nella Camera c'erano due cose che ferivano: « una è il
bisbiglio che percorre la
Camera e che dice: attento a quello che fai; alla regina non
piace quest'argomento; chiunque lo fa suo. l'avrà contro. Oppure dice: alla
regina piace quest'argomento. chiunque si oppone subirà la sua ira. L'altra è
questa: qualche volta arriva in questa Camera un messaggio che ordina di non-fare
oppure di fare, e questo è molto offensivo per la libertà di parola e di
consultazione. Io verrei, signor Speaker, che Dio seppellisse queste due cose
nel profondo inferno... Dolce è il nome della libertà, ma la sostanza ha un
valore inestimabile... Senza di essa è beffardo chiamare questa una Camera del
parlamento: poiché, in verità, essa non sarebbe altro che un luogo di lusinga e
d'ipocrisia » (66).
Ma quello che in realtà si chiedeva andava
al di là della libertà di parola, intesa in senso moderno, per coinvolgere il
potere di iniziativa. Era questo l'obiettivo delle punte avanzate della Camera
bassa. E per esprimerlo, essi non conoscevano altro termine all'infuori di «
libertà di parola ».
Per tutto il resto del regno di Elisabetta
ci saranno dei tentativi per forzare la regina a riconoscere al parlamento
questa prerogativa, ma essa mantenne rigidamente le sue posizioni. Nel 1593 si
spinse fino a riconoscere ai membri del parlamento il diritto-dovere di
esprimere liberamente il proprio pensiero sui disegni di legge in discussione,
« ma l'iniziativa di introdurre alcunchè dipendeva dalla natura della materia.
Le materie di stato, quelle che ricadevano sotto la prerogativa reale, non potevano
essere oggetto di discussione nella Camera, a meno che la sovrana non avesse
concesso il permesso di farlo... Nessun monarca del XVI secolo ammise mai
qualcosa così dirompente come la libertà di parola nel suo significato più
ampio, ma nello stesso tempo nessuno negò che la discussione sugli argomenti
all'esame del parlamento dovesse essere completamente libera.
Questa prerogativa particolare, perciò,
arrivò fino al punto del suo riconosciemento formale, ma rimaneva ancora
controverso il suo preciso significato. Di tutte le prerogative parlamentari
questa sola sorse da motivi politici piuttosto che costituzionali o
procedurali, e il suo ulteriore sviluppo dipendeva, perciò, dal mutamento delle
relazione politiche tra la corona e i Comuni » (68).
Per le altre prerogative parlamentari i
sovrani Tudor si dimostrarono più aperti. Era ormai riconosciuto, da oltre
mezzo secolo, che un membro del parlamento non poteva essere arrestato, per un
procedimento civile, durante lo svolgimento del suo mandato parlamentare. Se
ciò accadeva, la Camera
chiedeva ed otteneva dalla cancelleria un decreto di scarcerazione.
Sotto i Tudor i Comuni rivendicarono il
potere di ottenere la scarcerazione per propria autorità. Enrico VIII riconobbe
e difese questo diritto. Elisabetta mise in guardia, rifacendosi ad alcuni casi
accaduti nel passato, i membri della Camera contro un suo possibile abuso. Ma la Camera era una gelosa
custode di questa sua prerogativa e la difese anche contro i possibili abusi
dei suoi membri, rigidamente. Nel 1576 non esitò a mandare alla Torre, il
terribile carcere-fortezza reale, un suo membro che aveva abusato del diritto
d'immunità dagli arresti per non pagare un suo debito e ce lo tenne finchè il
debito non fu pagato.
Il singolo deputato era tenuto ad osservare
alcune regole di comportamento all'interno e all'esterno della Camera.
All'interno egli doveva tenere una condotta e usare un linguaggio che non fosse
irriguardoso verso l'istituzione, verso il sovrano e verso gli altri membri.
All'esterno egli doveva astenersi dal parlare con estranei dei lavori del
parlamento che erano segreti, nè doveva in qualsiasi modo e con qualsiasi atto
arrecare danno al prestigio del parlamento. Per entrambe le mancanze egli era
passibile - per vilipendio del parlamento - di sanzioni - incluso l'arresto.
comminate dalla Camera stessa che esercitava il potere di «giurisdizione
domestica ».
Questo significava che il deputato doveva
seguire ed osservare strettamente - durante i lavori - le regole della Camera.
Aveva la parola chi si alzava per primo senza cappello. L'oratore doveva
rivolgere il suo indirizzo allo Speaker e non agli altri deputati. Se si
dissentiva con qualcuno non lo si doveva nominare, ma si doveva usare una
locuzione tipo « chi mi ha preceduto » o « chi ha affermato... », e questo per
evitare polemiche o battibecchi. Chi aveva già parlato una volta, non poteva
parlare una seconda volta nello stesso giorno, anche se era stato chiamato
direttamente in causa.
Lo Speaker garantiva l'osservanza delle
regole del dibattito. Il suo compito, infatti, era quello di presiedere i
lavori, ma non aveva il diritto di parteciparvi direttamente, intervenendo a
favore o contro un disegno di legge. Egli era anche responsabile della
effettiva frequenza dei deputati, ai quali - tuttavia - poteva concedere
permessi di assenza.
Le regole del dibattito erano necessarie
per rendere più spediti i lavori della Camera ed erano di sostegno alla
procedura di approvazione delle leggi. Questa procedura prevedeva che ogni
proposta o disegno di legge avesse tre letture, in tre giorni differenti. Alla
prima lettura la Camera
veniva informata del contenuto della proposta o del disegno di legge. Alla
seconda si decideva se esso doveva essere portato in discussione o doveva
essere sottoposto - per emendamenti - all'esame di una commissione in sede
referente, oppure doveva essere respinto. Dopo l'esame della commissione « era
ovviamente necessario leggerlo alla Camera. E così arrivammo alle tre famose
letture, che rappresentavano il numero minimo di letture necessarie per
approvare una legge in un'epoca in cui non esisteva la stampa » (72).
« Il metodo del rinvio in Commissione appare
per prima in connessione con le singole proposte o disegni di legge. Ma non ci
volle molto per scoprire che esso poteva essere egualmente utilizzato per lo
studio e l'esame di affari generali. Così nel 1571 fu istituita una commissione
di venti deputati per il sussidio; un'altra di trentasei per gli "affari
di Religone"; una terza di tredici per l'esame delle "petizioni e
delle lagnanze" (Motions of Griefs and Petitions) e una quarta di nove per
esaminare la validità delle elezioni in alcuni borghi... Dalla Commissione
incaricata di esaminare specifici argomenti fu facile passare alla commissione
permanente, nominata per trattare gli argomenti della stessa natura durante
l'intera sessione. La commissione sugli "Affari di Religione" e per
le "Motions of Griefs and Petitions" del 1571, erano virtualmente
tali. Nel 1581 fu nominata una commissione permanente per l'esame di tutte le
elezioni contestate... » (73).
Quest'ultima commissione testimoniava il
lungo cammino fatto dalla Camera dei Comuni nella costruzione dei suoi poteri.
Nel XV secolo essa aveva più volte preteso di verificare la legittimità
dell'elezioni di alcuni suoi membri e qualche volta aveva invalidato il
risultato di alcuni seggi, ma il potere di controllare e convalidare l'elezione
dei candidati era rimasto di competenza della Cancelleria. Nel XVI secolo essa
diventa la sola autorità a decidere sulla validità delle elezioni. Nel XVII
secolo, Giacomo Stuart tenterà di spogliare i Comuni di questo diritto
acquisito, ma essi si ribelleranno e alla fine la spunteranno una volta per
tutte.