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Capitolo VI

Capitolo VI

 

PREMATURA SUPREMAZIA DEL PARLAMENTO

 

  « Nella lunga storia di una nazione spesso vediamo che gover­nanti capaci piantano - con le loro virtù - il seme di mali futuri e che principi deboli o degenerati aprono la strada al progresso »(1).

  

   « Per evitare una volta per sempre la rinascita dei partiti territoriali e politici, che sotto il regno di Edoardo II avevano quasi compromesso le fortune dell'Inghilterra » (2), Edoardo III ave­va iniziato, e portato avanti negli anni, una politica di rafforza­mento dinastico, creando - attraverso una politica di matrimoni - dei grandi principati per i propri figli.

 

    Edoardo, l'erede al trono e principe di Galles, « aveva sposato la figlia del conte di Kent »; Lionello, duca di Clarence e « conte di Ulster per parte di sua moglie », era morto nel 1368, lasciando una figlia - Philippa - i cui discendenti rivendicheranno, nel XV secolo, il trono dalla dinastia Lancaster per diritto di primoge­nitura; Giovanni «aveva sposato l'erede della casa di Lancaster » e divenne duca di Lancaster, il cui figlio Enrico sarà il fondatore di una nuova dinastia; Edmondo, duca di York, « assorbì la gran­de casa rivale dei Mortimer », i cui discendenti, in quanto discen­denti anche di Philippa, contenderanno - e con successo - la co­rona alla casa di Lancaster; e - infine - Thomas, duca di Gloucester, « aveva sposato l'erede del conte di Essex e di Hereford» (3)

 

Ognuno di questi duchi poteva contendere in ricchezza e potenza - nell'ambito del proprio feudo - con la casa reale. « In quanto ad autorità essi erano scarsamente inferiori ad un re molto e più che un re in quanto a ricchezza e splendore all'interno del proprio maniero » (4).

 

« Se i figli di Edoardo non fossero stati ambiziosi e fossero stati più patriottici, il risultato [di questa politica] potrebbe essere stato buono » (5). Ma essi erano e si sentivano sopratutto membri della casa reale, e in quanto tali partecipavano - per diritto di na­scita - ad un potere più vasto di quello racchìuso nel loro titolo e nel loro feudo a cui non rinunceranno facilmente quando le condi­zioni a corte muteranno. La loro condizione di grandi feudatari ser­viva loro per aumentare la loro influenza a corte e nel paese, ma non bastava per appagare la sete di potere che li animava.

    Edoardo III, come abbiamo visto, era più guerriero che uomo di stato. Gran parte della durata del suo regno la trascorse sui campi di battaglia della Francia alla ricerca di gloria e di potenza. Il resto della sua vita lo trascorse, ammalato e vecchio, sotto l'influenza della sua amante Alice Perrers, che il parlamento del 1376 aveva bandita dalla corte e l'aveva condannata all'esilio e alla confisca dei beni. Il governo del paese, specialmente nell'ulti­mo periodo, era sotto l'influenza diretta o indiretta dei suoi figli che, molto spesso, si fronteggiavano in campi contrapposti per affermare la propria supremazia.

 

   L'erede al trono, principe di Galles, e Giovanni di Lancaster, suo fratello, erano a capo delle due fazioni che si fronteggiarono nel parlamento del 1376, quando Edoardo era ancora in vita, per affermare ciascuno la propria politica. Il primo prevalse, come abbiamo visto, ma alla sua morte Giovanni assommò nelle sue mani «un potere così grande che non fu mai esercitato da un suddito e raramente lo fu da un sovrano: egli dimise i membri aggiunti del parlamento nel Consiglio, proclamò che il Parlamento Buono non era affatto un parlamento, richiamò a corte i lords che il parlamento aveva messo in stato d'accusa e condannati e li reintegrò nei loro uffici, e concesse ad Alice Perrers di ritornare, in sfida alle sanzioni civili ed ecclesiastiche previste in caso di un

suo rientro » (6).

 

   Nel negare le riforme del Parlamento Buono, Lancaster non fece altro che difendere il potere della corona, che egli esercitava per conto di suo padre, dall'attacco di un contropotere rappresen­tato dal parlamento e dalla fazione che lo controllava. Quello che importava in quell'epoca era la conservazione del potere e non la politica che si portava avanti. E Giovanni di Gaunt ne darà una chiara dimostrazione.

 

   Quando, alla morte di Edoardo III, la situazione a corte muta ed egli perde la posizione di privilegio, mentre il centro del potere, per la minore età del re, si sposta dalla corona al Consiglio, egli non si opporrà più - come aveva fatto nel 1376 - ad aumentare all'interno di quest'organo l'influenza del parlamento, ma - nello stesso tempo - si preoccuperà di mantenere immutata la sua posizione di potere facendo entrare i suoi uomini nel Consiglio, di cui egli non fa parte: ufficialmente egli conserva solo la dignità che gli deriva dai suoi possedimenti territoriali, ma nella realtà la sua influenza sul governo è forte quanto lo era prima sulla corona.

 

   Col tempo, la sua influenza sarà soppiantata da quella di suo fratello Thomas, duca di Gloucester, e dalla sua fazione, in cui svolgerà un ruolo importante Enrico di Bolingbroke, futuro Enrico IV.

 

La storia successiva, fino alla dinastia dei Tudor, sarà larga­mente influenzata dalle fazioni dinastiche che si contenderanno il potere. La politica di rafforzamento dinastico, voluta ed iniziata da Edoardo III, si veniva così risolvendo in una lotta di fazioni che sfocerà nella guerra civile delle due rose, tra la casa di Lancaster e quella di York', che in un trentennio (1455-1485) di lotte intestane porterà alla quasi totale distruzione della nobiltà del Paese.

 

   Riccardo II fu il primo sovrano a fare le spese di questa lotta di fazioni. Durante la sua minore età, egli e il suo governo furono sotto l'influenza dominante di Giovanni di Lancaster. Quando stava per liberarsene nel 1386, fu riportato violentemente sotto 1’influenza del partito di Gloucester e degli altri Lords Appellanti.  Dal 1389 al 1397 egli riesce a prevalere sulle altre fazioni con le quali sembra voglia convivere, ma non distruggere, anche perchè non ha la forza sufficiente per farlo.

 

   Ma quando nel 1397 egli si sente forte abbastanza da liberarsi completamente di esse e poi introduce il principio della monarchia assoluta, egli va al di là del punto e provoca la sua fine. Egli non sarà condannato per l'eliminazione delle fazioni o per i suoi atti di governo non sempre aderenti al principio della legalità, ma lo sarà per la sua teoria, nuova per l'isola, del potere illimitato della. corona. Se egli si fosse limitato a spogliare il parlamento dei poteri acquisiti o ad esautorarlo de facto, o servirsi di esso come proprio strumento di governo, avrebbe anche potuto riuscire nel suo intento di governare il paese senza limitazioni e controlli di sorta, come riuscirà in parte ai re della casa di York prima, e - poi - ai re Tudor inn modo egregio, ma egli voleva essere un re assoluto de iure, in emulazione ai re della dinastia francese con cui si era imparentato.

 

   In altre parole, « quando egli cade, non è semplicemente per il modo come gestiva il potere che egli viene condannato, ma per la sua teoria - egli non si era reso semplicemente colpevole di molte illegalità, ma egli si riteneva al di sopra della legge: egli affer­mava che la sua volontà era legge, che la vita, la terra e i beni dei sudditi appartenevano al re » (8).

 

   Questo rappresentava una degenerazione rispetto alla lunga tra­dizione di governo limitato che aveva caratterizzato la monarchia inglese negli ultimi secoli. La caduta di Riccardo aprì un nuovo e fecondo periodo costi­tuzionale. La nuova dinastia ascendeva al trono non per diritto ereditario, ma per elezione del parlamento, anche se Enrico IV -  per evitare la sua soggezione verso l'organo che lo eleggeva - rivendicò il trono per diritto ereditario (9) che gli derivava - attraverso la casa di Lancaster - direttamente da Enrico III. La realtà, però, era contro di lui e la sua tesi. Sotto Riccardo II, infatti, il parlamento aveva deciso che, in assenza di eredi diretti, la corona spettava, per diritto di primogenitura, alla linea Morti­mer che discendeva direttamente da Philippa, figlia del duca di Clarence, secondogenito di Edoardo III. Nel presente questa linea era rappresentata da un bambino e non aveva molti sostenitori, ma nel futuro essa si imparenterà con la casa di York, anch'essa  discendente diretta di Edoardo III, e il diritto di primogenitura avrà uno sviluppo diverso.

 

   Nonostante la sua tesi ereditaria, Enrico IV Lancaster, de facto, veniva eletto dal parlamento, da quello stesso parlamento di cui, nel recente passato, egli era stato uno dei massimi leaders. Le conquiste che il parlamento aveva fatto sotto il regno di Riccardo  II portavano anche la sua firma. Egli, però, fu sempre un elemento moderatore. Nel 1387 evitò che la crisi tra corona e parlamento si concludesse con la rottura totale ed irreparabile tra il re, sconfitto sul campo, ed i Lords Appellanti, campioni del parlamento. Anche se, diventato re, tiene ad affermare che, pur ricono­scendo i diritti ed i poteri acquisiti dal parlamento nel corso del la XIV secolo, non rinuncia a nessuna delle prerogative regie e, quin­di, neanche al controllo del potere esecutivo che intende esercitare prima persona, nella realtà concreta egli ed i suoi successori saranno sin dall'inizio sovrani costituzionali che governeranno il paese col consenso e per mezzo del parlamento.

 

   L'incapacità di Enrico IV ad opporsi alla volontà dell'organo che a          lo aveva eletto fu messa in evidenza sin dal suo primo parlamento, quando tutte le richieste furono soddisfatte. Egli dipendeva troppo da quest'organo e dalle forze che esso rappresentava per pensare di poter adottare una politica autonoma. Il paese non era ancora del tutto pacificato, e non lo sarà per gran parte del suo regno. Ogni tanto qui e lì sorgevano delle ribellioni in favore del deposto monarca o, successivamente, per questioni di indipendenza nazio­nale. Enrico IV era cosciente della sua posizione di debolezza quando affermò in parlamento che egli « intendeva governare con l'aiuto delle persone più sagge del suo regno e non per atti della sua volontà »(11).

 

    Solo « suo figlio Enrico V si sentì così forte da riprendere la guerra contro la Francia, ma le sue lunghe campagne lo tennero lontano dall'Inghilterra e dovette lasciare il governo in altre mani. La sua morte prematura portò al trono suo figlio, Enrico VI, quando era ancora bambino in fasce. La sua lunga minorità e la sua malattia mentale e fisica, dopo che egli divenne maggiorenne, crearono le condizioni in virtù delle quali il parlamento continuò a mantenere il controllo generale sul governo.

 

 «Per un periodo di sessant'anni l'autorità del parlamento fu indiscussa, nè i re lancasteriani si dimostrarono mai intenzionati a metterla in discussione. La loro naturale inclinazione sembrava essere, per quanto ne sappiamo, quella di governare in armonia col parlamento. Fu un periodo dì ininterrotto governo costituziona­le... Il parlamento sembrava cosciente della sìcurezz,a della sua posizione e si preoccupava, da una parte, a perfezionare i dettagli e, dall'altra, a rafforzare il suo controllo sulla vita del paese. Esso usò il Consiglio del re come proprio strumento... Ma persino il controllo parlamentare del Consiglio... non riuscì ad evitare il sorgere di quelle rivalità tra i grandi del tempo che portarono, in un'altra generazione, direttamente alla guerra civile delle due rose.

« Questo fu, in effetti, un periodo prematuramente moderno. Fu costituzionale, non perchè la costituzione avesse solide fonda­menta e il suo controllo sul governo fosse fermamente radicato, non perchè la via costituzionale sembrava la sola via naturale di

fare le cose, ma piuttosto a causa delle circostanze di natura contingente: l'insicurezza del re [Enrico IV], la sua assenza [Enri­co V], la sua infanzia e la sua debolezza mentale e fisica [Enrico VI], fecero sì che il parlamento fosse realmente l'organo più forte nello stato. Il migliore risultato in questo periodo fu che il governo costituzionale incominciò a sembrare una cosa naturale. Gli abiti mentali, di pensiero e di azione, che si formarono allora furono più importanti dei precedenti che si venivano stabilendo. Una delle grandi ragioni per cui la costituzione sopravvisse nelle epoche successive fu dovuta proprio al fatto che in questa essa era diventata una parte fermamente radicata della vita nazionale”  (12).

 

    Il XIV secolo era stato il secolo in cui il parlamento aveva costruito i suoi poteri: approvava la tassazione diretta e ogni forma di tassazione era illegale senza il suo consenso; attraverso il sistema delle petizioni partecipava al processo legislativo con potere di iniziativa: controllava le entrate e la spesa pubblica; e, infine, partecipava alla definizione di tutte le questioni più impor­tanti di politica interna ed estera.

 

  Nel secolo XV, e fino all'ascesa al trono di Edoardo IV della casa di York, esso sarà impegnato nel miglioramento, nella ri­difinizione e nell'accrescimento di questi poteri; nella formazione e definizione della procedura interna; nella costruzione delle prerogative dei suoi membri e nella riforma del sistema elettorale.

 

  Sin dal primo parlamento di Enrico IV le due camere ridefi­scono il loro ruolo. I Comuni, che nel passato e nel recentissimo presente, avevano esercitato saltuariamente, assieme alla Camera alta, la funzione giurisdizionale, tipica dei Lords, nel parlamento del novembre 1399, chiesero alla corona di riconoscere « che la funzione giurisdizionale apparteneva solamente al re ed ai Lords e non ai Comuni, e che, eccetto nel caso in cui al re piacesse, per sua speciale grazia, portare a loro conoscenza i giudizi emessi, non si doveva registrare negli atti parlamentari la loro partecipa­zione, presente o futura, a procedimenti d'accusa » (13).

 

     La richiesta dei Comuni aveva una duplice giustificazione Prima, e più immediatamente, essi non volevano essere coìnvolti nella faida dei nobili che era iniziata in quel parlamento con la caccia ai sostenitori di Riccardo. Secondo, essi - come rappresen­tanti eletti della comunità - avevano un'altra funzione da svolge­re, più politica che giurisdizionale, e, cioè, quella di dare espres­sione a tutti ì mali che affliggevano la comunità e proporre rimedi per il bene della nazione. Essi erano interessati al problema politico-amministrativo e al buon governo, più che alle questioni dinastiche o alla conquista di posizioni di privilegio o di potere personale (che del resto erano al dì fuori della lora portata), come - invece - erano interessati i nobili. Quando essi avranno il potere di designare i membri del Consiglio, sceglieranno sempre dei nobili. Solo raramente, e per qualche carica minore, essi si rivolgeranno ad uno di loro, come nel caso di William Walmorth e John Philipot, due mercanti di Londra nominati tesorieri del sussi­dio pubblico dal parlamento del 1377. Essi, in cambio, eserciteran­no un'influenza politica sempre maggiore. Sotto Enrico IV essi « erano così potenti come non lo erano stati mai e come non lo saranno più per due secoli »(14).

 

   Il motivo occasionale del secondo colpo di stato di Riccardo Il era stato il caso Axis. Questo malcapitato scrivano, nel parlamen­to del 1397, aveva presentato una petizione in cui si chiedeva, tra l'altro che fosse diminuito il costo di mentenimento della corte che dava ospitalità - a spese della corona e quindi della nazione - ad una moltitudine di vescovi, feudatari, ai loro seguiti e a molte signore con i loro servi. Questa petizione suscitò le ire di Riccardo perchè essa rappresentava un'indebita ingerenza negli affari di corte, la quale non rientrava nelle competenze del parlamento, ma era amministrata sotto l'esclusiva prerogativa del re. Riccardo pretese che Axis fosse condannato a morte per alto tradimento, ma successivamente egli stesso lo graziò.

 

   Agitando il caso Axis, i Comuni - nel primo parlamento di Enrico IV - mossero alla conquista di un nuovo potere: quello del controllo sull'amministrazione della casa reale e dei suoi funziona­ri. Nel parlamento di quell'anno essi presentarono una petizione con cui chiedevano di abrogare il provvedimento di condanna di Axis in quanto calpestava il diritto dei Comuni di presentare petizioni in parlamento. Il suo accoglimento, e la reintegrazione di Axis nei suoi uffici, diede ai Comuni il riconoscimento del «diritto che essi avevano di presentare petizioni senza limitazioni di argomenti »(15), anche se esse riguardavano la casa reale o la corte.

 

   Ottenuto questo primo successo, essi chiesero - nel parlamen­to del 1404, la rimozione di quattro persone dalla corte, tra cui lo stesso confessore del re. In presenza dei Lords, davanti ai quali i quattro si erano presentati per essere giudicati, il re « disse apertamente che, per quanto lo riguardava, egli non conosceva ragioni valide per cui essi dovevano essere rimossi dal suo servi­zio; ciò nonostante - rendendosi conto che ciò che i Lords o i Co­muni chiedevano o disponevano era per il suo bene e per quello del paese - egli si conformava ai loro desideri e approvava l'ordinan­za che bandiva i quattro dalla corte. Inoltre, egli aggiunse che avrebbe agito nello stesso modo con ogni altra persona che avesse suscitato l'indignazione del suo popolo » (16).

 

  Ma il controllo sui funzionari non bastava. Quello che i Comuni volevano era il controllo sui ministri della corona. Il primo passo in questa direzione venne fatto nello stesso 1404, quando il re, « per soddisfare le insistenti richieste fatte a più riprese nello stesso parlamento dai Comuni del regno » (17), sottopose alla Camera la lista dei membri del Consiglio.

 

   Nel 1406 i Comuni si spinsero oltre. Non solo chiesero ed ottennero che la lista dei membri del Consiglio fosse approvata dal parlamento, ma ottennero anche che il re si conformasse - nell'esercizio del potere esecutivo - ad una specie di trattato del buon governo che essi avevano stilato in trentuno articoli di una petizione (18).

 

    Essi, « inoltre, costrinsero i membri del Consiglio a riconoscer­si responsabili verso il parlamento » e pretesero che giurassero di osservare i trentuno articoli della petizione « che doveva restare in vigore fino al successivo parlamento »(19).

 

  Nel 1401, essi avevano chiesto che la riparazione dei torti e degli abusi doveva precedere la votazione dei sussidi, ma il re si era rifiutato di riconoscere esplicitamente questa richiesta. Egli sostenne che essa era contraria alla tradizione. I Comuni, tuttavia, riuscirono a strappare questo principio in via di fatto a partire dal 1406, votando la tassazione al termine della sessione parlamentare.

 

    Nel 1407, approfittando dì una questione procedurale, essi ottennero il riconoscimento che ogni tassazazione doveva avere origine nella Camera bassa e che, non appena i Lords l'avessero approvata, doveva essere comunicata al re dallo Speaker.

 

    In quell'anno il re, venendo meno alla tradizione, aveva chie­sto ai Lords un parere sull'entità della contribuzione necessaria per far fronte alle necessità del regno. Dopo di che, convocò davanti ai Lords una commissione dei Comuni per informarla sull'entità del contributo che i Lords avevano stimato necessario, in modo che essi vi si conformassero il più possibile. Questa procedura inusitata sollevò un coro di proteste ai Comuni. Essi affermarono che questo pregiudicava e derogava dai loro diritti e dalle loro libertà. « Non appena il re venne a conoscenza di queste proteste, desiderando di non fare alcunchè - nel presente e nei tempi a venire - che potesse in qualche modo toccare le libertà dei Comuni e dei Lords, decise e concesse, su consiglio e col consenso degli stessi Lords, che nell'attuale parlamento come in quelli a venire, i Lords potevano discutere fra di loro, senza la presenza del re, sullo stato del regno e sui rimedi di cui esso abbisognava, e che la stessa cosa valeva per i Comuni, rimanendo fermo che nè i Lords, nè i Comuni avrebbero comunicato al re la decisione del contributo concesso dai Comuni ed approvato dai Lords, fino a quando le due camere non erano pienamente d'ac­cordo e la decisione doveva essere riportata nei modi e nella forma tradizionale e, cioè, dallo Speaker dei detti Comuni » (20).

 

 Questo è il primo esempio di contrasto tra le due camere » (21). Esso si risolse a favore della camera bassa, anticipando quella che sarà, poi, una costante nella vita futura del parlamento, fino ai giorni nostri. E' vero che la formula « concesso dai Comuni ed approvato dai Lords » era stata già usata nel 1395, ma essa assume una rilevanza politica in questo parlamento non solo e non tanto perchè  sembrava « una dottrina ragionevole che il più povero dei tre stati stabilisse il gravame delle imposte e che i rappresentanti della massa dei contribuenti fissassero l'ammontare della tassazione », 7a avere perchè « quel principio era stato già applicato di fatto », ma perchè in questo parlamento esso riceve per la prima volta « un riconoscimento autorevole » (22). Tuttavia questo non è che il primo passo, anche se di portata storica, verso quella supremazia in materia di tassazione che la Camera dei Comuni stabilirà sui Lords in via definitiva nel XVII secolo, quando si rifiuterà di esaminare una serie di proposte di legge presentate dalla Camera alta.

 

   Nello stesso parlamento il re rinunciò spontaneamente alla sua tradizionale posizione sulla spesa per la difesa e accettò che essa     passasse sotto il controllo del parlamento. Il processo del controllo parlamentare sulla spesa militare era iniziato sotto Riccardo II, quando il parlamento ottenne di fissare la destinazione delle somme concesse e di nominare i tesorieri che     quelle somme dovevano amministrare. Il re forniva dei rendiconti su queste spese ogni qualvolta il parlamento lo richiedeva, anche se teneva a precisare che ciò avveniva per un suo atto di buona volontà e non per un diritto acquisito del parlamento.

 

    Su questo tema, nel 1406, si svolse un tenace braccio di ferro tra la Camera bassa ed Enrico IV. Enrico sosteneva che « i re non forniscono rendiconti » (23), ma il conflitto terminò con la vittoria dei Comuni. Da quel momento i ministri fornirono il rendiconto anche senza un'esplicita richiesta dei Comuni.

  Nel parlamento del 1401, infatti, il cancelliere fornì un rendiconto, « prima oralmente e poi per iscritto... volontariamente... e senza averne avuto richiesta » (24). « Il principio era destinato ad essere contestato continuamente: era un principio che non aveva alcun valore se il parlamento non aveva la volontà di rivendicarlo anno dopo anno - i parlamentari di Edoardo IV e di Enrico VII non avranno questa volontà » (25).

 

   Nel 1401 i Comuni avevano ottenuto che « i lavori del parla­mento fossero registrati prima che i magistrati lasciassero il parlamento e mentre era tutto fresco nella loro memoria » (26). Nel 1406 essi ottennero che una commissione parlamentare ne control­lasse la registrazione per evitare che nell'atto della trascrizione - che veniva fatta di solito alla chiusura della sessione - si potes­sero alterare i termini delle deliberazioni, o riportare erroneamen­te i lavori, come era avvenuto molto spesso nel passato. L'esempio più eclatante in questo senso l'aveva fornito Riccardo Il che - nel trascrivere agli atti la decisione del parlamento di delegare i suoi poteri ad una commissione, per il solo esame delle petizioni che esso non aveva fatto in tempo ad esaminare - alterò i termini della deliberazione in tal modo da far risultare una delega di tutti i poteri alla commissione, che egli si era preoccupato di riempire con uomini a lui fedelissimi, liberandosi così del parlamento; ma con quali risultati!

 

    Nel passato i Comuni si erano battuti affinché le petizioni fossero approvate e trasformate in statuti in piena sessione par­lamentare e nella loro stesura originaria. La prima richiesta in questo senso fu fatta nel 1327, quando fu presentata la prima petizione collettiva di cui abbiamo conoscenza. Ma « per tutto il XIV secolo rimase il pericolo che - sebbene il re, con l'assenso dei Lords, avesse approvato la petizione dei Comuni, il conseguen­te statuto o legge non corrispondesse affatto a ciò che i Comuni volevano. I Comuni hanno continuamente protestato contro ciò: le petizioni venivano stemperate prima che esse fossero trasformate in statuti » (27).

 

   Nel 1414, sotto Enrico V, i Comuni, dopo aver affermato di essere parte essenziale nella formazione delle leggi ed aver riven­dicato il diritto di presentare petizioni, chiesero ed ottennero « che a partire da quel momento le loro petizioni fossero trasformate in leggi senza aggiunte o modifiche che ne mutassero il significato o l'intenzione... e questo affinchè essi non fossero obbligati ad os­servare alcunchè che non fosse stato approvato da essi stessi » (28).

 

   Nel 1429, infine, « sotto Enrico VI, fu fatto un ulteriore passo avanti verso quella che è stata comunemente definita la sostitu­zione della petizione con la proposta di legge. La proposta di legge era una in fieri, nella forma in cui doveva essere promulgata; in tal modo fu eliminata la possibilità di apportare cambiamenti o modifiche nel trasformare una petizione in legge » (29).

 

  La proposta di legge ebbe un'origine governativa. Il re trova­va conveniente far preparare ai suoi ministri delle proposte che avessero forma di legge per poi sottoporle all'approvazione del parlamento. Questo rendeva più semplice e razionale la procedura nella formazione delle leggi e, nello stesso tempo, evitava possibili contrasti tra corona e parlamento. I Comuni seguirono l'esempio della corona e diedero forma di legge alle loro petizioni, ma questo non evitò del tutto l'inconveniente da essi lamentato. La corona continuò ad apportare modifiche o ad inserire clausole condizionali alle leggi di proposta parlamentare.

 

« Bisogna aspettare fino al XVI secolo perchè la corona perda il potere di emendare o modificare le proposte di legge approvate dalle due camere. Lo stesso Enrico VII, e persino Elisabetta, in qualche occasione, si presero la libertà di aggiungere clausole condizionali, o altrimenti modificare le leggi, prima di apporvi la sanzione reale. Ci sono tre fasi nella storia della legislazione: fino al regno di Edoardo I fu un atto della corona; poi divenne un atto della corona in parlamento e, infine, un atto del parlamento. Alla fine del medioevo si è soltanto nella seconda di queste fasi e - accanto al potere di fare leggi in parlamento - la corona posse­deva un diritto parallelo a legiferare attraverso ordinanze, indipendentemente dal parlamento; un potere che non è stato mai definito » (30)

 

   Sotto la dinastia della casa di Lancaster il parlamento fa dei notevoli passi avanti verso la definizione delle immunità parlamen­tari.

Abbiamo già visto che lo Speaker cercava di garantirsi certi privilegi e certe prerogative per gli atti compiuti durante l'eserci­zio delle sue funzioni. In questo periodo questi privilegi e queste prerogative incominciarono ad essere rivendicate anche per gli altri membri del parlamento. La libertà di parola, l'immunità dagli arresti e il diritto alla protezione reale durante il periodo dell'espletamento del loro mandato, vengono rivendicate dai Co­muni come condizioni necessarie per condurre proficuamente ì lavori del parlamento. Finchè ogni singolo deputato doveva badare a quello che diceva, e come la diceva, per non incorrere nelle ire del sovrano; finchè i deputati potevano essere arrestati durante la sessione parlamentare per vari motivi, la Camera dei Comuni rimaneva sempre soggetta a pressioni che non le consentivano di condurre sino in fondo le sue battaglie.

 

  Nel 1401 i Comuni chiesero ad Enrico IV che se, durante lo svolgimento di un dibattito alla Camera, qualche deputato gli avesse riferito in modo parziale ì termini del dibattito, col preciso intento di provocare la sua ira contro la Camera o contro alcuni suoi membri, nella speranza di ingraziarselo e promuovere così la propria carriera, egli avrebbe dovuto astenersi dal ricevere ed ascoltare una tale persona. Il re fece rispondere che egli deside­rava che i Comuni dibattessero e deliberassero tra di loro, in modo da raggiungere la migliore decisione per il bene della corona e del paese e che egli non avrebbe ascoltato alcuno, nè gli avreb­be dato credito, finchè la deliberazione non gli fosse stata presen­tata dai Comuni per mezzo dello Speaker (31).

 

   In sostanza i Comuni chiedevano la segretezza del dibattito e questo per garantire al singolo deputato, come all'intera Camera, la possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero nel corso del dibattito. In un periodo ín cui ai membri della Camera bassa (i Lords erano garantiti dai loro privilegi di classe) non era riconosciuta alcuna immunità, la pubblicità del dibattito li avrebbe esposti, come li espose, non solo alla vendetta del potere, ma anche alla vendetta del singolo interesse colpito o che si intendeva colpire. La segretezza del dibattito, in quel periodo, era una libertà necessaria al buon funzionamento del parlamento ed i Comuni la rivendicarono e la ottennero, fino ad un certo punto.

   Se la segretezza del dibattito è un esempio di libertà collettiva, nel parlamento di Enrico VI del 1455 troviamo un esempio di liber­tà di parola riconosciuta implicitamente ad un singolo deputato.

 

   Nel parlamento di quell'anno un rappresentante della contea e della città di Bristol presentò alla Camera una petizione che i Comuni sottoscrissero ed inviarono ai Lords. Con questa petizione il deputato Young chiedeva giustizia per l'arresto che aveva subito cinque anni prima per aver presentato ed illustrato una mozione che si prefiggeva lo scopo di far dichiarare erede al trono il duca di York, essendo il re senza figli.

 

    La petizione di Young, che riporteremo nella sua quasi interez­za perché essa costituisce - per la sua chiarezza - una vigorosa difesa e riaffermazione delle antiche libertà dei Comuni, fu tra­smessa dal re al Consiglio e questo l'accolse:

« Thomas Young rivolge la seguente preghiera: ultimamente egli è stato, per diverse volte, membro del parlamento per la contea di Bristol ed egli ha sempre improntato la sua condotta ai valori della fedeltà, della verità e del lavoro diligente - per quanto fosse nelle sue possibilità - per il bene del nostro sovrano e del suo regno; nonostante il fatto che per le antiche libertà possedute, godute e sanzionate dai Comuni di questo regno da tempo immemorabile, tutte le persone che siedono in questa Ca­mera in rappresentanza della comunità, dovrebbero avere la libertà di parlare ed esprimere in assemblea tutto ciò che essi riten­gono giusto e ragionevole, senza paura di incorrere nelle ire di alcuno, di venire accusate o di subire punizioni, il presentatore di questa petizione, a causa di un rapporto falso e tendezioso che qualcuno fece al nostro re in ordine del suo intervento in assem­blea, fu arrestato e, a viva forza e pubblicamente, fu condotto nella Torre di Londra, dove - in contrasto con le anzidette libertà - rimase rinchiuso per lungo tempo e dove dovette subire punizioni insopportabili, col costante pericolo di perdere la vita, e tutto ciò senza un'esplicita accusa, nè un mandato di cattura, nè un regola­re processo, come prescrivono le nostre leggi » (32).

 

  «Questa è una rivendicazione unica nel Medio Evo. Tuttavia, è impossibile stabilire se la definizione di libertà di parola [che essa contiene] va al di là della opinione personale di Young. Certamen­te essa non può essere presa per quel che sembra; ed è assurdo, volendo considerare Young legato ad un partito, [con il quale la corona era in lotta], assumere che la risposta favorevole del governo sia un implicito riconoscimento generalizzato di quel dirit­to. Comunque, sembra che una certa, o - più probabilmente - in'incerta libertà di parola fosse considerata un diritto consuetudi­nario; e questo essa rimase fino al periodo dei Tudor » (33).

 

    Nel 1404, i Comuni lamentarono che molto spesso i membri della camera, durante i loro viaggi dai collegi elettorali, venivano aggrediti, derubati e anche uccisi, e chiesero al re di prendere provvedimenti severi atti a garantire la loro incolumità.

   Nel 1429, sotto Enrico VI, chiesero che nessun membro del parlamento, lord, cavaliere o borghese, venisse arrestato e detenu­to in prigione durante la sessione parlamentare, eccetto che per tradimento, assassinio o per attentato alla pace, ma il re rispose con la formula sospensiva le roi s'avisera. Per il riconoscimento completo di questa prerogativa i Comuni dovranno aspettare fino al regno di Enrico VIII.

 

  Il potere della Camera dei Comuni era incominciato a crescere sotto il regno di Edoardo III. Con Riccardo II essa aveva acquista­to - tranne negli ultimi due anni del suo regno, - una certa rilevanza politica. Con Enrico IV e la casa di Lancaster il suo potere si accrebbe notevolmente. Essa divenne, fino ad un certo punto, l'organo in cui si decideva la politica del paese.

 

   In queste mutate condizioni, il seggio alla camera non venne più visto come un dovere gravoso a cui non ci si poteva sottrarre, come era considerato sotto i primi Edoardi, ma venne ad acquista­re un prestigio (34) e una prospettiva di avanzamento personale senza precedenti, almeno per la classe dei cavalieri che sono, e saranno ancora per qualche tempo, l'elemento più vivace e più importante della Camera. I seggi della Camera incominciarono ad essere contesi dal re e dalle fazioni, per creare maggioranze a loro favorevoli, e dai signorotti indipendenti che incominciarono ad offrire la loro candidatura, senza pretendere il rimborso spese che gravava sulla comunità locale.

 

    L'aumentata importanza del seggio parlamentare fece venire alla luce i difetti del sistema elettorale. Sin dal regno di Edoardo III i Comuni si erano lamentati del modo come avveniva l'elezione dei cavalieri nella corte di contea, a cui avevano diritto di parte­cipare tutti gli uomini liberi della contea. Molto spesso era lo sceriffo che sceglieva i due deputati, senza una regolare elezione in assemblea. Per ovviare a questo stato di cose i Comuni chiesero di restringere il corpo elettorale agli uomini più influenti della contea, ma il re rispose che il diritto elettorale apparteneva a tutta la contea, liberamente

 

    Nel 1404, i Comuni chiesero ed ottennero dal re di esaminare e controllare i risultati delle elezioni della contea di Rutland che, secondo loro, erano stati falsificati dallo sceriffo. In effetti risultò che egli aveva inviato al parlamento non il deputato regolarmente eletto, ma un suo uomo. Per questo fu multato ed imprigionato. Questo è il primo esempio di controllo parlamentare sulle elezioni contestate. Fino ad allora esse erano state decise dal re e dal Consiglio. Ma perchè il controllo parlamentare si affermi bisogne­rà aspettare ancora qualche tempo.

 

   Nel parlamento del 1406 essi lamentarono nuovi brogli elettora­li nelle contee ed approvarono una legge che stabiliva: «per' rimediare agli abusi lamentati, il re ordina che l'elezione dei cavalieri avvenga osservando questa procedura: l'elezione deve ­avere luogo nella prima riunione della corte di contea, subito dopo - l'arrivo del decreto di convocazione del parlamento; la proclama­zione degli eletti va fatta in piena assemblea e partecipano all'ele­zione tutti i presenti. Ad elezione avvenuta, agli eletti va rilasciati: un decreto di elezione controfirmato da tutti coloro i quali hanno partecipato alla elezione stessa » (36).  Con questa legge il potere arbitrario dello sceriffo venne abolito direttamente » (37).

 

    Nel 1413, sotto Enrico V, venne approvata un'altra legge che. mentre confermava la procedura fissata nel 1406, stabiliva che gli eletti e gli elettori, per esercitare il loro diritto, dovevano essere residenti della contea, almeno dalla data del decreto di convoca­zione del parlamento".

 

Che gli eletti fossero residenti della contea «,era una condizio­ne sempre stabilita nel decreto di convocazione dei collegi elettora­li; l'altra condizione [quella degli elettori] era data per concessa: ma ora che le elezioni avevano assunto una nuova importanza, era necessario che esse avessero un riconoscimento legale » 39.

Infine, nel 1429, sotto Enrico VI, si ha una riforma elettorale di maggiore portata, che restringerà la base elettorale ai soli proprietari diretti con una rendita annua minima di quaranta scellini. Con questa legge « emerge, per la prima volta, l'idea che la partecipazione alle elezioni è un diritto politico che non appar­tiene inequivocabilmente a tutti gli abitanti del collegio elettorale, e ancora meno a tutti nello stesso modo » (40).

 

    Questa riforma rimarrà in vita per quattro secoli, fino alla riforma elettorale del 1832. E' stato detto, e giustamente, che essa creò delle grosse e vistose disparità. « Il proprietario diretto con un reddito di quaranta scellini godeva del diritto al voto, mentre non lo godevano il fittavolo e il concessionario, non importa a quanto ammontasse il loro reddito » (41).

 

    Le elezioni nei comuni e nei borghi non seguivano una regola uniforme`. Esse si svolgevano nel disinteresse della maggioranza della popolazione che preferiva lasciare questo compito alle auto­rità o ai ceti più abbienti. Col passare del tempo questa prassi divenne un diritto riconosciuto attraverso le patenti delle corpora­zioni cittadine e così - quando la rappresentanza parlamentare acquisterà un certo valore - la massa dei cittadini si troverà esclusa dal diritto al voto.

 

   A conclusione di questo periodo estremamente fecondo per la crescita dell'istituto parlamentare possiamo dire - citando K. Mackenzie - funzionario della Camera dei Comuni - « che il successo dei Comuni non fu permanente. Con una indifferenza che sembra incredibile allo storico della costituzione che va alla ricer­ca di una crescita continua dei diritti del parlamento, i Comuni stessi gettarono via tutti i vantaggi che avevano conquistato. Nel 1415, in gratitudine per la vittoria di Azincourt, i Comuni fecero rivivere il cattivo precedente del 1397 e concessero a vita il dazio sulla lana e sull'import-export.

« Una simile concessione fu fatta di nuovo nel 1453, al termine della guerra dei cento anni. D'allora in poi il precedente fu seguito regolarmente: Edoardo IV, Riccardo III ed Enrico VII ottennero concessioni a vita non appena salirono al trono. Il risultato non poteva che essere disastroso. La convocazione del parlamento divenne più rara. La regola dei parlamenti annuali, che Enrico IV ed Enrico V avevano mantenuto con una certa regolarità, non fu osservata e divennero frequenti lunghi intervalli tra una convocazione e l'altra. Enrico VII, in un regno di ventiquattro anni, terrà solo sette parlamenti e potè affermare che averne tenuti pochi era una virtù. Nello stesso tempo, il volume della legislazione iniziata dai Comuni declinò continuamente. Dopo il 1450 essi riuscirono a far passare poche leggi e qualche proposta di leggi importante veniva spesso respinta. Nel regno di Enrico VII qua tutta la legislazione importante veniva proposta dal re e da. Consiglio » (43).

 

    Comunque questo periodo - anche se a breve termine parlamento perderà quasi tutte le sue conquiste - costituirà uni fonte inesauribile di precedenti per i Comuni del XVII secolo che li useranno - a volta erroneamente - come armi micidiali nel' loro lotta contro la corona per l'affermazione degli antichi diritti e - della antiche libertà. Ma prima dovranno passare dalla forgia de_ grande costruttore di parlamenti, Enrico VIII, per temprarsi ed irrobustirsi.

 

    Sotto la casa di York il parlamento non ha storia. Edoardo TV era salito al trono - dopo aver sconfitto sul campo i seguaci dell'infelice Enrico VI - per diritto di primogenitura. Egli sapeva che il parlamento gli era ostile. Qualche anno prima non gli aveva voluto riconoscere il suo diritto al trono per diritto di nascita, ed egli divenne re, per autoproclamazione, non appena la sua fazione risultò vittoriosa.

 

Il suo regno inizia il 4 marzo 1461, sebbene Enrico VI fosse ancora in vita e nessuno avesse proclamato la sua deposizione. «Il fatto è importante poichè illustra l'applicazione della dottrina in virtù della quale egli assunse la sua funzione regale. Sebbene non ci fosse stata un'elezione formale, ne un riconoscimento- parlamen­tare, ma una semplice e tumultuosa proclamazione, il suo diritto al trono fu considerato senza ombra, in virtù del diritto del sangue, non appena quel diritto fu rivendicato. Il riconoscimento parla­mentare venne poi; ma fu riconosciuto che il regno di Edoardo datava dal giorno in cui egli si autoproclamò re » (44)

 

  Dal suo secondo parlamento, nel 1465, egli si fece votare a vita tenne il dazio sulla lana e sull'import-export e poi lo convocò saltuaria­`.i così mente. In ventidue anni di regno lo convocò soltanto sette volte. Egli integrava le sue finanze con i proventi delle terre dei suoi  oppositori e - soprattutto - con una nuova imposizione che ela legge aveva escogitato per evadere il controllo del parlamento: le cosid­dette « benevolenze »: nella forma, una specie di dono volontario che  i sudditi facevano al loro sovrano, ma nella sostanza delle vere imposizioni, molte volte estorte con l'intimidazione. Eppure « negli atti parlamentari non esiste traccia di malcontento espres­       so; ma è evidente da un passo dell'indirizzo rivolto a Riccardo duca di Gloucester, quando egli fu invitato - nel 1483 - a prender­si la corona, che la nazione - sebbene avesse taciuto - non era          insensibile a questa illegalità. Nell'unico parlamento di Riccardo III le benevolenze furono dichiarate illegali per sempre» (45).

 

 Riccardo III è l'ultimo sovrano della casa di York. Egli fu sconfitto nella battaglia di Bosworth nel 1485 e con questa batta­glia termina la lunga e sanguinosa guerra civile delle due rose.

 

 

 
 
Indice
Prefazione
Capitoli
1) I progenitori del Parlamento
2) L'Inghilterra normanna
3) La nascita del Parlamento
4) Il Parlamento modello
5) I poteri del Parlamento
6) Supremazia del Parlamento
7)Parlamento strumento di governo
8) Il Parlamento contro Giacomo I
9) Il Parlamento contro Carlo I
10) Il Parlamento nella guerra civile
11) La supremazia del Parlamento
12) Verso la democrazia
 

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