Capitolo III
LA NASCITA DEL
PARLAMENTO
La caratteristica fondamentale della storia
inglese è che nella evoluzione delle istituzioni non c'è rottura tra passato e
presente, ma solo trasformazione nella continuità. L'assemblea dei maggiorenti
(Witenagemote) pre-feudale si trasforma nel feudale Gran Consiglio del regno,
di cui fanno parte solo la classe dei nobili e l'alto clero, ed i cui poteri
sono estremamente limitati e di natura fondamentalmente consultiva. A partire
dal XIII secolo il Gran Consiglio incomincia la sua marcia sulla via di un
lento, graduale - ma incessante - progredire verso forme di limitazioni del
potere assoluto del sovrano.
L'essenza stessa dell'evoluzione storica del
parlamento inglese sta nel « vedere come il governo assoluto dell'undicesimo
secolo, il cui potere era racchiuso nella persona del re, la cui volontà era
legge, venne gradatamente trasformandosi nella democrazia dei nostri giorni,
in cui il re è soltanto una figura rappresentativa ».
Le tappe fondamentali di questa
trasformazione, attraverso i secoli, abbracciano - schematizzando - cinque
grandi periodi.
Il secondo, che arriva fino al termine della
guerra civile delle due rose nel 1485, vede il parlamento impegnato nella
progressiva conquista di poteri sempre più vasti ed è caratterizzato dalla
formazione degli organi interni e dalla sua divisione in due Camere, quella
dei Lords e quella dei Comuni.
Il terzo, che comprende tutta la dinastia dei
Tudor (1485-1603), ha come tratto fondamentale la funzione di strumento della
politica governativa che il parlamento svolge ad opera e per conto dei sovrani
di questa dinastia e in special modo di Enrico VIII. In questo periodo la Camera dei Comuni prende coscienza
dei propri poteri.
Il quarto, che abbraccia tutto il periodo
della dinastia scozzese degli Stuart (1603-1714), va diviso in due momenti. Il
primo (1603-1688) vede il parlamento impegnato nella lotta contro la corona;
lotta che termina col trionfo del parlamento che si afferma come potere
sovrano. Nel secondo (1688-1714) si completa, sotto la monarchia costituzionale
di Guglielmo d'Orange e di Maria Stuart e poi dì Anna, l'ultima discendente
diretta della casa Stuart, la grande struttura della costituzione inglese.
Il quinto, che va dal
1714 fino ai giorni nostri, è caratterizzato dalla conquista dell'ultimo potere
rimasto alla corona: l'esecutivo; dallo
sviluppo e consolidamento del sistema dei partiti; dalla crescita democratica
del parlamento, con le grandi masse che si affacciano sulla scena del potere, e
vede la Camera
deì Comuni (elettiva) impegnata a strappare alla Camera dei Lords (ereditaria)
i poteri fondamentali e ad affermarsi come l'unica vera depositaria della
sovranità popolare.
Ripercorre queste tappe, non solo ci
consentirà di vedere le lotte - a volte anche cruente - che si son dovute
affrontare per creare - nello spazio di secoli - gli organi del sistema di
governo parlamentare, oggi patrimonio di quasi tutti gli stati del globo, ma
anche e soprattutto di capire la logica o « l'istinto che... ha reso gli
inglesi, e in particolar modo gli inglesi rozzi, capaci di dar vita ad
istituzioni sane e durevoli, allo stesso modo come le api costruiscono gli
alveari, senza subire la degradazione di capire i principi in base ai quali
intessono la rete, la quale – alla fine - viene intessuta meglio e più precisa
di qualsiasi lavoro di arte cosciente ».
La lotta tra nobiltà e corona incomincia a
venire alla ribalta, in tutta la sua drammaticità, con il primo patto di una
certa rilevanza costituzionale, o di limitazione del potere del sovrano: la Magna Charta. E'
questo documento che segna la pietra miliare di tutte le rivendicazioni
successive per una maggiore partecipazione nel governo del regno da parte dei
nobili prima e dei borghesi poi.
Se fino a Giovanni Senza Terra (1199-1216) la
lotta tra corona e nobiltà si mantiene nei limiti di una normale dialettica tra
due poteri ed è di natura quasi esclusivamente finanziaria, con questo sovrano
essa incomincia a farsi più aspra e i due poteri si fronteggiano anche sul
campo di battaglia: l'uno per affermare la propria supremazia, l'altra per
limitare i poteri di un sovrano che tendeva a diventare dispotico, in dispregio
di tutte le tradizioni feudali e dei diritti riconosciuti dai suoi
predecessori. La questione finanziaria, anche se rimarrà la molla che farà
scattare la rivolta, non è più l'unico motivo di malcontento: ad essa si
mescola una serie di prevaricazioni che suscitano il risentimento di tutti gli
strati sociali: dai nobili al clero, dalla piccola nobiltà ai comuni .
La crisi tra Giovanni ed i suoi baroni
raggiunge il suo punto di rottura nel 1214. In quell'anno Giovanni subì una grave
sconfitta nella battaglia di Bouvine, in Francia, mentre tentava la riconquista
della Normandia che aveva perduto nel 1204.
I baroni approfittarono della momentanea
debolezza del re per coalizzarsi e resistere alle nuove ed esose richieste di
aiuti finanziari per continuare la guerra. In questa occasione la ribellione
dei baroni non si limitò alla sola resistenza passiva, ma sottoposero al re
anche una serie di richieste miranti a ristabilire gli antichi diritti feudali
e al riconoscimento delle libertà concesse dai suoi precedessori. Queste rivendicazioni
furono racchiuse in una Carta che aveva come modello la Coronation Charter
(1100) di Enrico I, la quale, a sua volta, «pretendeva di riallacciarsi alle
leggi di Edoardo, il confessore (4), rinnovando così la catena che congiunge le
istituzioni dell'Inghilterra anglo-normanna a quelle dell'epoca anglo-sassone».
Giovanni, che non era in grado di resistere
ai baroni coalizzati, cercò di prender tempo, ma - alla fine - fu costretto a
riconoscere e a firmare la
Carta dei Baroni (Magna Charta) nel giugno del 1215. Ma
l'anno successivo la rinnegò, dando così inizio ad una guerra civile che solo
la sua morte precoce (avvenuta nello stesso anno) evitò che si concludesse con
il passaggio della corona inglese sulla testa del futuro re di Francia, a cui i
baroni ribelli l'avevano offerta e per la quale egli stava già combattendo sul
suolo inglese.
La morte del re rivoluzionò le posizioni: i
baroni ribelli si strinsero attorno ad Enrico III, il piccolo figlio di Giovanni,
per cacciare dal suolo inglese l'esercito francese che essi stessi avevano
chiamato.
La Magna Charta stabiliva, come motivo di fondo, il
principio che il re non era legibus solutus, ma era vincolato non solo
all'osservanza delle leggi del regno, ma anche delle tradizioni. Un concetto
che più tardi Bracton, l'illuminato giudice di Enrico III, sintetizzerà nella
formula: « Rex non debet esse sub homine sed sub Deo et sub lege » (6). Nel
contratto che si stabiliva tra le due parti, il re assumeva la figura del
sovrano costituzionale (7) e la nobiltà rinunciava, rinuncia che sarà poi
definitiva, alla riaffermazione del particolarismo feudale. Nessuno voleva il
ritorno dell'anarchia conosciuta sotto il regno di Stephen, anzi, tutti
riconoscevano la necessità di un potere centrale abbastanza forte, ma non
arbitrario, non dispotico, non assoluto.
La
Charta contiene - oltre ad una parte di natura contigente
riguardante la regolamentazione dei rapporti feudali - quattro temi di fondo
che saranno, poi, una costante nella storia dello sviluppo delle istituzioni
del Paese. Questi temi riguardano:
1) le libertà individuali: «Nessun uomo
libero potrà essere arrestato, imprigionato, privato dei suoi beni, usanze e
libertà, nè messo fuori dalla legge, esiliato o molestato in alcun modo, e noi
non metteremo nè faremo mettare la mano su di lui se non in forza di un
giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del Paese» (art. 39).
Questa è la formulazione più ampia dei
diritti individuali mai sanciti da un documento di rilevanza costituzionale
della storia inglese. Queste libertà saranno richiamate - citando la Magna Charta - dalla
Petizione dei Diritti del 1628. Bisogna, però, precisare che queste libertà
individuali non erano patrimonio di tutti. Sebbene la Charta, all'art. 60, precisava
che tutte le libertà concesse dal re ai suoi vassalli dovevano essere garantite
e concesse agli uomini liberi dei singoli feudi', in realtà dal loro godimento
rimaneva esclusa la stragrande maggioranza della popolazione, composta da
contadini e servi della gleba.
2) Il controllo sulla tassazione. Era
tradizione feudale che il vassallo fornisse al re, qualora ne avesse bisogno
per difendere il regno da nemici esterni o per combattere qualche barone
ribelle, oltre agli aiuti di cui diremo più avanti, una prestazione militare
dalla durata di quaranta
giorni all'anno. Questo dovere, come abbiamo visto, si era trasformato in un
diritto di scutaggio che - per il fatto stesso di essere di natura finanziaria
- non veniva riscosso soltanto nei casi previsti dalla consuetudine feudale, ma
molto spesso veniva riscosso anche in periodi di pace.
Giovanni fu il primo a fare ricorso - nel
1.207 col consenso del Gran Consiglio - a questo tipo di tassazione che era al
di fuori della tradizione feudale e che colpiva, sui beni mobili, non soltanto
coloro i quali erano tenuti alla soggezione feudale, ma tutti i
proprietari diretti (10).
I baroni erano disposti a tollerare questa
nuova imposizione fintantochè essa rimaneva saltuaria; ragionevole e fosse
approvata da loro stessi. Ma le costanti necessità belliche del re e le
accresciute esigenze dell'amministrazione del regno, non solo fecero sentire
Giovanni autorizzato « ad imporla ogni anno » ", ma fecero anche salire
costantemente il suo saggio che, non tenendo conto dei precedenti, veniva
fissato unilateralmente dal re, senza convocare il Gran Consiglio.
Per la campagna di Francia del 1214,
terminata col disastro di Bouvine, Giovanni impose un diritto di scutaggio di
addirittura tre marks.
La Magna Charta voleva porre rimedio a questi abusi
e fissava due principi fondamentali. Il primo sanciva che nel regno non
sarebbero stati imposti nè contribuzioni (diritto di scutaggio), nè aiuti senza
l'approvazione del Comune Consiglio del Regno, eccetto per i tre aiuti previsti
dalla tradizione feudale (art. 12). Il secondo stabiliva che l'ammontare del
diritto di scutaggio doveva essere fissato non unilateralmente dal re, ma dal
Gran Consiglio del Regno (art. 14).
3) Il controllo sull'attività del governo.
L'art. 61, una delle clausole finali della Magna Charta, imponeva a Giovanni di
concedere ad un Comitato rivoluzionario di venticinque baroni, il diritto -
qualora egli avesse rotto i termini del patto - «di sequestrarlo e ridurlo alla
miseria in tutti i modi, cioè cori la requisizione dei suoi castelli, delle
terre e di ogni altro possedimento in qualsiasi altro modo possibile ».
« Questo diritto di
resistenza, o meglio di ribellione, che il re accettava, corrispondeva alla
facoltà che ovunque i signori locali si
riservavano di combattere in certi casi contro il capo della loro
confederazione ed era una conseguenza dell'ordinamento feudale :n base al quale
ogni barone aveva i mezzi materiali di resistere al sovrano; va da sè che le
forze di molti baroni uniti erano superiori a quelle del re» (12).
Anche se l'art. 1 della
Charta stabiliva che i diritti in essa sanciti venivano concessi dal sovrano «
per proprio conto e per conto dei propri discententi, per sempre », i baroni
non si sentiroro mai sicuri della sua osservanza. A partire da Enrico III,
figlio e successore di Giovanni, tutti i sovrani - fino al secolo XV - saranno
chiamati a riconfermarla. Essa fu ripubblicata nel 1216 e nel 1217, con
sostanziali modifiche rispetto all'originale. « Quest'ul::ma edizione fu poi
riconfermata, con lievi modifiche, da Enrico III nel 1225, quando fu dichiarato
maggiorenne, e questa rimase la
Charta ufficiale dei regni successivi » (13)
Da quest'ultima e definitiva stesura sparivano
- tra altre proposizioni di minore rilievo - gli art. 12 e 61, mentre l'art. 14
venne ad avere una nuova formulazione che riconduceva il prelievo del diritto
di scutaggio a quello in uso sotto il regno di Enrico II. Gli art. 12 e 61
venivano omessi perchè essi ormai avevano perso il significato rivoluzionario
che avevano alla data della loro formulazione.
Il sovrano feudale in Inghilterra aveva sempre
fatto ricorso alla richiesta di contributi finanziari per far fronte alle
necessità del regno in tempo di guerra. Ed era consuetudine che essi venissero
accordati, purchè ragionevoli e non molto frequenti.
La loro regolamentazione all'art. 12 della
Charta stava a significare che Giovanni aveva travalicato i limiti della
consuetudine, imponendo, in tempo di pace, contributi irragionevoli, frequenti
e senza la preventiva approvazione del Gran Consiglio, una prassi che egli
stesso aveva istituito nel 1207.
Con Enrico III si era
ritornati al rispetto della tradizione che prevedeva soltanto il prelievo del
diritto di scutaggio, il cui rateo era prefissato, e quindi l'art. 12 non aveva
più motivo di essere. Inoltre, la certezza del rateo, assicurata dalla nuova
stesura dell'art. 14, rendeva superflua l'originaria stesura di questo
articolo. « Accettando di ritornare al rateo prefissato di Enrico II, i baroni,
nel 1217, sacrificarono deliberatamente quel diritto di controllo sulla
finanza nazionale che essi avrebbero potuto acquisire nel 1215. Mai, in vero,
essi dimostrarono di capire la vitale natura della posta costituzionale in gioco.
L'importanza del Consiglio Comune, era
qualcosa che andava al di là della loro ristretta visione. Comunque, non si
dovrebbe dimenticare che la sostanza [degli art. 12 e 14] della Charta di
Giovanni [sebbene il primo fosse stato omesso e il secondo ristrutturato nelle
edizioni della Charta di Enrico III], nella prassi venivano virtualmente
osservati dalla corona e venivano considerati in vigore dai baroni. Da questo
momento in poi il Consiglio Comune fu quasi invariabilmente consultato dalla
corona prima di imporre queste contribuzioni... I baroni del 1255... consideravano
ancora in vigore gli articoli 12 e 14 della Charta di Giovanni » (14). Questi
articoli ritorneranno in vita ufficialmente nella loro originaria stesura, col
nome di Statuto de Tallagio non Concedendo - di cui parleremo più avanti - nel
1297, quando un nuovo sovrano - Edoardo I - tenterà di imporre contributi nè
ragionevoli, nè infrequenti e senza ìl consenso del Gran Consiglio.
Lo stesso avvenne per l'art. 61. Era una
tacita intesa, nel rapporto feudale, tra signore e vassallo, che quest'ultimo
aveva il diritto di ribellarsi se ìl primo tentava dì violare o in effetti
violava i termini del patto che li legava l'uno all'altro. E Giovanni più volte
aveva violato i termini di quel patto. L'art. 61 della Charta riconosceva
esplicitamente - e per iscritto - questa intesa, ne estendeva il diritto a
tutta la nazione e ne faceva garante il Comitato dei venticinque baroni.
Quest'articolo, tuttavia, aveva un senso nel
1215, quando esso era diretto contro un sovrano forte ed infido come Giovanni,
e difatti i baroni se ne avvalsero nel 1216, quando il re tentò di revocare la Charta. Ma con un
sovrano ancora bambino, affidato alla tutela degli stessi baroni, che
governavano in suo nome, esso aveva perso tutta la sua carica rivoluzionaria e
perciò fu omesso dalle successive stesure.
Il suo significato, tuttavia, rimarrà sempre
presente nello spirito e nella mente del popolo inglese che se ne avvarrà ogni
qualvolta un sovrano tenterà di calpestare i diritti scritti e non scritti, o
tenderà a diventare dispotico ed assoluto. Lo farà nel 1264 contro lo stesso
Enrico III, che sarà fatto prigioniero dai baroni ribelli; lo farà nel 1327,
quando deporrà Edoardo II, sovrano imbelle e dispostico; lo farà, ancora, nel
1399, quando deporrà Riccardo II, sovrano dispotico ed assoluto; lo farà nel
1649, quando deporrà e giustizierà Carlo I che tentò di calpestare tutti i
diritti riconosciuti del parlamento per introdurre il concetto continentale di
monarca assoluto che governa per grazia di Dio e non per volontà della nazione;
infine, lo farà nel 1688 quando deporrà il cattolico Giacomo II e offrirà la
corona al protestante Guglielmo d'Orange.
« La Magna Charta chiude un'epoca nella storia costituzionale
inglese e ne introduce un'altra. La monarchia assoluta, incontrollata, dei
periodi precedenti cessa di esistere, e incomincia la formazione della
monarchia costituzionale. Naturalmente, per un lungo periodo il cambiamento fu
leggerissimo e il progresso lentissimo, ma il principio su cui, nel corso del
tempo, si doveva basare la monarchia costituzionale, era stato posto ed esso
era destinato a non essere mai più dimenticato, nè a perdere la sua fondamentale
importanza nelle epoche successive » (15).
La minore età di Enrico III (1216-1272)
diede all'Inghilterra - per un breve periodo - la possibilità di essere
governata nello spirito dei principi fissati dalla Charta. Sotto la saggia
guida di Guglielmo Marshal e Uberto de Burgh, il Paese fece, fino al 1232,
esperienza di un nuovo metodo di governo: il re non governa da solo, ma con
l'ausilio e il consenso dei baroni, alcuni dei quali sono investiti dei più
alti Uffici dell'amministrazione statale. La minore età del re consente a
quest'ultimi di acquisire una certa indipendenza dalla corona. Ed è proprio per
garantire la continuità di questa esperienza che sotto Enrico III si
combatteranno le più aspre battaglie costituzionali.
La rottura del nuovo equilibrio, creatosi
nel 1216, avviene nel 1232, quando il re licenzia i ministri che hanno
governato la nazione durante la sua minore età, abolisce la carica di justiciar
e riprende il potere nelle sue mani, circondandosi di una nuova classe
dirigente straniera, tutta composta da « Poitevins », seguaci dell'arcivescovo
Peter de Roches, « cui egli largisce generosamente potere e ricchezza » `.
Da questo momento il re governa lo stato in
modo personale ed arbitrario, senza tenere in alcun conto il Consiglio del
Regno, che viene convocato solo quando egli ha bisogno di sussidi per
combattere sul continente per riconquistare i possedimenti persi da suo padre,
ma senza successo. A questo si aggiungeva la politica rapace dei legati
pontifici che amministravano la
Chiesa d'Inghilterra con uguale vantaggio per la corona e il
papato, a cui erano dovute le decime.
Gli eventi del 1232 riportarono bruscamente
in auge l'antica e tradizionale concezione dello stato patrimoniale che veniva
amministrato secondo i criteri di una proprietà privata. In questo, Enrico III
non faceva altro che riallacciarsi alla tradizione della casa degli Angiò. « La
sua politica, in breve, era quella... di governare il Paese attraverso gli
ufficiali di corte »(18) che erano gli esecutori privati della sua volontà `.
Tutto ciò urtava contro l'esperienza degli ultimi anni che aveva fatto nascere,
de facto, una distinzione tra funzione pubblica dello stato e prerogative
private del sovrano.
Le crisi che seguiranno avranno come motivo
di fondo proprio questo punto. Le richieste del 1244 e lo Schema dei Baroni del
1258 nasceranno per introdurre e garantire questa distinzione.
In sostanza, i baroni vogliono introdurre,
anche senza averne piena coscienza, perchè era un concetto troppo astratto per
la mentalità dell'epoca, quella che oggi chiamiamo la funzione impersonale
dello stato (20). « Essi speravano di rendere i grandi ufficiali di stato, in
particolare il justiciar e il cancelliere, dipendenti dell'assemblea dei
magnati, piuttosto che semplicemente dalla volontà del re» (21), mentre questi
si batteva per mantenere il vecchio e tradizionale concetto di stato
personale, allora comune a tutte le nazioni europee.
Per un lungo periodo nessuna delle due
concezioni riuscirà a prevalere: esse coesisteranno una accanto all'altra.
Tutto ciò crea un profondo malcontento che verrà espresso nelle rare volte in
cui il re sarà costretto a convocare il Consiglio del Regno. Nel 1244, il
Consiglio - alla richiesta del re di un contributo per continuare la sua guerra
di Guascogna - risponde nominando « un Comitato di dodici baroni per prendere
in esame la richiesta.
“Le proposte dei baroni sono significative;
essi dichiarono che, sebbene la
Magna Charta fosse stata spesso riconfermata, essa era
rimasta sempre inapplicata nella sostanza, perciò essi chiedevano che ne fosse
ripubblicata una aggiornata; inoltre chiesero che i grandi ufficiali del regno,
quali il justiciar e il cancelliere, fossero scelti tra i loro ranghi, e -
infine - chiesero l'istituzione di un comitato di quattro membri - di loro
nomina - che affiancasse il re nel governo del regno, vigilasse
sull'applicazione della Charta e rimuovesse tutti gli abusi
dell'amministrazione»`, Queste proposte non trovarono un'attuazione concreta «
perchè il re si rifiutò di accettarle » (23), ma esse saranno il seme che
germoglierà e porterà i suoi frutti nella crisi del 1258 (24), quando il re
sarà costretto a concedere le Provvisioni di Oxford.
Le origini immediate ed occasionali di
questa nuova crisi sono, ancora una volta, di natura finanziaria, ma quelle
remote e sostanziali vanno ricercate nel malgoverno, negli abusi, nella
politica predatoria dei legati pontifici, nel favoritismo per gli odiati savoiardi
e « Poitevins » (25) e, infine, ma non ultimo, nel dispregio in cui veniva
tenuta la classe dirigente di origine anglo-normanna.
Nel 1254, Enrico aveva accettato - per il
figlio secondogenito Edmondo - la corona di Sicilia, offertagli da papa
Innocenzo IV. Ma la corona non era vacante. Essa doveva essere tolta, per conquista,
agli eredi di Federico II e per farlo c'era bisogno di un esercito e di grandi
mezzi finanziari. « La prospettiva di dover conquistare un popolo ostile era
scoraggiante » per i baroni; inoltre, essi « non [vi scorgevano] alcun
vantaggio sostanziale per gli interessi inglesi, anzi al contrario, una fonte
di intollerabili esazioni » (27). In effetti, l'accordo prevedeva che la Sicilia doveva essere
tolta agli eredi di Federico II a spese dell'Inghilterra, ma con truppe
raccolte dal papa.
La rabbia dei baroni scoppia nel 1258,
quando il re convoca il Consiglio, ormai chiamato parlamento, per chiedergli i
mezzi necessari per condurre l'impresa di Sicilia. Essi, minacciando un'aperta
rivolta, riescono a farlo desistere dai suoi progetti dinastici e lo
costringono a firmare un accordo per una riforma generale dello stato. Con
questo documento il re accettava di riformare il governo e l'amministrazione
del regno secondo uno schema che doveva essere elaborato da una commissione di
24 baroni, nominati congiuntamente dal re e dal parlamento. La riforma doveva
avvenire in due tempi. Nel primo si doveva riformare il governo centrale, nel
secondo la riforma doveva essere portata all'interno dei feudi.
Lo
schema di riforma del governo centrale, conosciuto come le Provvisioni di
Oxford, stabiliva che il regno doveva essere governato dal re con l'ausilio di
un Consiglio di quindici membri « mominato congiuntamente dal re e dai baroni.
A questo Consiglio veniva affidato un ampio mandato: doveva assistere e consigliare
il re su ogni aspetto della politica governativa ed era responsabile del
perseguimento di tutti i possibili abusi di potere. Per esercitare un
controllo più efficace sul suo operato o, se necessario, per stimolarlo, il
consiglio doveva incontrarsi, tre volte all'anno, con un Comitato di dodici
baroni.
Anche il parlamento doveva riunirsi tre
volte all'anno Gli Uffici centrali dell'amministrazione dello stato dovevano
essere resi indipendenti dalla corona ed i loro responsabili dovevano fornire
un rendiconto al Consiglio. Il resuscitato Ufficio di justiciar doveva
assicurare un controllo permanente sull'operato del re... Il Cancelliere non
aveva il potere di emettere decreti, tranne che per il normale lavoro di
routine, senza il consenso del Consiglio. Egli aveva il compito di badare che
tutte le entrate fossero versate al tesoro e non dirottate altrove. Nel governo
locale fu deciso che gli sceriffi dovevano essere proprietari terrieri della
contea di cui ricevevano l'incarico e dovevano rimanere in carica per un solo
anno... Infine, un Comitato di ventiquattro baroni doveva prendere in esame la
questione del sussidio straordinario » (28) richiesto dal re.
«Non appena il parlamento di Oxford fu
sciolto, i baroni misero in esecuzione il loro programma... per tutto il 1258 e
per tutto l'anno successivo, il governo fu interamente nella mani dell'elettivo
Consiglio reale dei Quindici » (29). I parlamenti furono tenuti tre volte
all'anno, secondo quanto previsto dalle Provvesioni. Fu approvata tutta una
serie di atti legislativi ed amministrativi, con l'autorità del Consiglio, che
rese esecutivi i provvedimenti previsti per la riforma del governo centrale. In
tutto questo periodo, poteva dirsi realizzata, mutatis mutandis, la formula dei
governi democratici moderni: il re regna, ma non governa.
Le Provvisioni ebbero
vita breve a causa della discordia che subito serpeggiò nelle file dei baroni.
La rottura del fronte baronale avvenne per un motivo di fondo: Simone de
Montfort, tenendo fede all'accordo primitivo, voleva spingere ed estendere le
conquiste sancite dalle Provvisioni di Oxford anche alla piccola nobiltà e agli
uomini liberi all'interno dei feudi, mentre una parte dei baroni, che si era
battuta per conquistare per se stessa certi diritti e certe libertà nei
confronti del sovrano, era naturalmente spaventata dall'idea che questi stessi
diritti e queste stesse libertà potessero essere concesse all'interno dei
propri feudi. In altri termini, le libertà conquistate dai baroni con la Magna Charta e con le
Provvvisioni di Oxford erano libertà ad esclusivo beneficio della sola classe
dirigente e ne erano escluse tutte le classi subalterne. All'interno dei feudi,
la piccola nobiltà e la nascente borghesia rimanevano sottoposte alle antiche
vessazioni.
La reticenza dei baroni
ad attuare l'intero programma di riforma spinse i Baccellieri d'Inghilterra ad
inoltrare una formale protesta al principe Edoardo e al conte di Gloucester,
l'oppositore principale di de Montfort. « I baccellieri probabilmente erano i
cavalieri ed i proprietari minori delle grandi casate. Essi rappresentavano
un'opinione democratica... Essi affermavano che il re aveva fatto tutto ciò che
i baroni lo avevano costretto a fare, mentre i baroni non avevano fatto nulla
di tutto ciò che avevano promesso per il bene del Paese, ma avevano pensato
solo al loro bene » (30).
Nel 1259 Simone de Montfort, con l'aiuto di
Edoardo, riuscì a far approvare dal parlamento uno schema dì riforma del
governo locale, conosciuto come le Provvisioni di Westminster. Con questa
riforma i baroni si impegnavano « a garantire ai propri dipendenti tutti i
benefici che il sovrano aveva concesso e garantito ai propri vassalli»(31). Ma
queste Provvisioni non furono mai attuati per l'ostilità aperta di alcuni
grandi baroni. «A questi magnati mancava la grandezza di Simone de Montfort e
lo spirito pubblico necessario per portare avanti delle riforme che
richiedevano sa
non soltanto agli altri, ma anche a se stessi. [Simone ed i sostenitori avevano
dalla loro le migliori tradizioni della
nazione e la prospettiva di un futuro migliore: questo è dimostrato
dall'appoggio che Simone ricevette dalla piccola nobiltà e dai comuni che egli
convocò, stabilendo un importante precedente istituzionale, ai parlamenti del 1264
e del 1265 » (32). Della rottura del fronte baronale ne approfittò il re per
non tenere fede alla sua primitiva accettazione delle Provvisioni di Oxford.
Il principe Edoardo giustificò questo
rifiuto col fatto che mentre il re aveva mantenuto fede ai suoi impegni, non
altrettanto
avevano fatto i baroni che, in gran parte, si erano rifiutati di
applicare le Provvisioni di Westminster all'interno dei propri feudi, facendo
fallire tutto lo schema di riforma dello stato prefigurato nel 1258,
all'attuazione del quale egli aveva prestato giuramento (33).
Nel 1261, il papa sollevò il re dall'obbligo
dell'osservanza del giuramento e tra i baroni e il sovrano si stabilisce uno
stato di guerra latente che andrà avanti per un triennio, quando - infine - le
parti decidono di sottomettere la questione all'arbitrato del re di Francia,
Luigi IX, il quale non riconobbe alcun fondamento giuridico alle Provvisioni di
Oxford e sentenziò che Enrico era tenuto solo all'osservanza della Magna
Charta.
Questo fece scoppiare le ostilità. Il re e il
principe Edoardo furono fatti prigionieri da de Montfort ed i suoi seguaci nel
1264 (battaglia di Lewes). Nello stesso anno Simone convoca - a nome del re -
un parlamento a cui invita anche quattro cavalieri di ogni contea.
Della convocazione dei
cavalieri al Consiglio del regno si erano avuti due precedenti nel passato. Il
primo, sotto Giovanni, nel 1213, quando questo sovrano li convocò « ad
loquendum nobiscum de negotiis regni nostri » (34) (per discutere con noi
sugli affari del nostro regno) e il secondo, molto più importante, nel 1254,
quando - in assenza del re che combatteva in Guascogna « ed aveva una grande
necessità di denaro - i reggenti, sua moglie e suo fratello, convocarono il
Gran Consiglio a Westminster: al quale ogni sceriffo doveva mandare » due cavalieri della propria contea.
Il decreto di convocazione disponeva,
inoltre, che i due cavalieri « dovevano essere eletti dall'assemblea della
contea in rappresentanza di tutti e di ciascuno... per decidere assieme agli
altri cavalieri delle altre contee, che noi abbiamo convocato per lo stesso
giorno, quale aiuto [finanziario] essi possono concederci in questo momento di
grande necessità » (36). In questa occasione « i rappresentanti delle contee, i
rappresentanti eletti delle contee, sono convocati non semplicemente per
stabilire, ma per concedere un sussidio; non si tratta più di contrattare con
ogni contea separatamente; devono riunirsi tutti insieme e insieme devono
provvedere. Era un gran passo avanti » (37) sulla via della formazione del
parlamento rappresentativo di tutte le classi speciali.
Nel 1265, Simone de Montfort convoca un
altro parlamento, al quale chiama anche due cittadini di ogni borgo per sedere
insieme «ai pari, ai prelati» ed ai cavalieri. «Questo fu l'inizio dei Comuni,
culla della democrazia moderna » (38). Quest'ultima affermazione va corretta
nel senso che il parlamento convocato da de Montfort «fu un'assemblea
rivoluzionaria, alla quale furono convocati solo quei baroni che erano del
partito di Simone, ma costituì un precedente per la convocazione dei
"borghesi" che fu poi ripreso dai parlamenti più regolari di Edoardo
I.
Il parlamento inglese non fu creato da un
individuo singolo, nè da Simone nè da Edoardo. Nessuno lo costruì; esso nacque
e si sviluppò. Fu il risultato naturale, attraverso il corso dei secoli, della
saggezza e dell'equilibrio del popolo inglese, che ha sempre preferito in
genere i comitati ai dittatori, le elezioni alle lotte di strada, e le botteghe
delle chiacchiere (39) ai tribunali rivoluzionari.
Il parlamento non fu creato da un momento
all'altro, allo scopo di rendere permanente una rivoluzione in cui una delle
due forze rivali si eresse vittoriosa e l'altra cadde vinta. Esso maturò per
gradi, come strumento adatto a smussare gli elementi contrastanti e a
concordare l'azione comune fra i poteri che si tenevano nel debito conto a
vicenda: il re, la Chiesa,
i baroni e alcuni strati popolari, come i borghesi ed i cavalieri.
Nessuno aveva la minima considerazione per i
servi della gleba che non facevano parte del Parlamento. Poichè sapeva che il
parlamento gli era ostile, il "lavoro" appena cominciò ad acquisire
una certa coscienza di sè preferì l'azione diretta, sul tipo della sollevazione
del 1381.
Ma lasciati da parte i servi della gleba, il
parlamento rappresenta un pacifico equilibrio di poteri. Il popolo inglese si
è sempre distinto per lo spirito "collegiale", per l'aspirazione a
sedere attorno a un tavolo e a discutere finchè si sia raggiunto un accordo o
un compromesso.
Questo tipico carattere
nazionale è la vera origine del Parlamento » (40).
La battaglia di Lewes
aveva reso Simone padrone dell'Inghilterra. Il re e l'erede al trono erano in
sua mano; il governo era sotto il suo diretto controllo; la città di Londra lo
« accolse con grida di gioia e col suono delle campane »(41). Un uomo con un'ambizione
diversa avrebbe potuto dare un diverso corso agli eventi, ma l'unica
preoccupazione di de Montfort era quella di rendere effettive e durature nel
tempo le riforme del 1258-59, anche se nella struttura subivano delle
modificazioni. « La
Commissione dei ventiquattro fu sostituita da un Triunvirato.
Il Consiglio reale era composto da nove membri scelti dal Triunvirato; ma chi
governava erano i Nove, come i Quindici precedenti... e poichè le decisioni
prese ad Oxford e Westminster furono riconfermate, [il parlamento] doveva
essere convocato secondo le formalità previste da quelle decisioni » (42).
Quest'assetto, tuttavia, anche se accettato
dal re, era una soluzione rivoluzionaria che poteva diventare definitiva solo
se la vittoria di Simone e del suo partito fosse stata definitiva. Ma egli fu
sconfitto e ucciso nella battaglia di Evesham, nell'agosto del 1265, da una
nuova coalizione capeggiata dal principe Edoardo.
L'esperimento
costituzionale dei baroni era, così, terminato e la corona ritornava ad essere
l'unica detentrice del potere nello stato.