C A P I T O L O
III
LA SCOPERTA DELL'UOMO E LA SCOMPARSA DELL'INDIVIDUO
I greci avevano inventato gli strumenti
del pensiero razionale. Lentamente, e nei secoli, avevano inventato il concetto
di ordine, di definizione, di generalizzazione, di classificazione, di
descrizione, di associazione, di relazione, di causa, la logica, il sillogismo
e la dialettica. E, con questi strumenti, mossero alla conquista della
conoscenza, di cui non furono gli inventori. La conoscenza, infatti, è nata con
l'uomo ( Reichenbach, 1974: 17 ), ma,
fino ai greci, egli non ebbe mai coscienza di essere un soggetto che conosce.
L'uomo primitivo, quello delle civiltà mesopotamiche e quello della civiltà
egiziana, pur avendo accumulato, nei millenni, un'enorme massa di conoscenze,
hanno sempre creduto che la conoscenza fosse un dono divino e non un affare
dell'uomo. L'uomo era lo strumento del quale il dio si serviva per dare
all'umanità una nuova tecnica o un nuovo metodo e nulla di più. Solo con i
greci del V secolo a.C. l'uomo prende piena coscienza che la conoscenza è
un'attività umana e non divina. E, con questa nuova consapevolezza, l'uomo
greco si diede ad indagare sulle cose del mondo con i metodi che erano
congeniali alla sua stirpe: il dialogo e la discussione, che stanno alla base
del pensiero speculativo.
Dapprincipio questa febbrile attività di ricerca fu indirizzata, con i
filosofi delle città ioniche del VI secolo a.C., verso i problemi del mondo
fisico per dare una risposta diversa alle domande di sempre, cioè alle stesse
domande che si erano poste tutte le civiltà precedenti: chi siamo, da dove
veniamo e dove siamo diretti. Il mistero dell'esistenza e del mondo fisico ha
sempre affascinato l'uomo, sin dal suo sorgere, ed egli ha sempre cercato di
darsene una spiegazione con gli strumenti intellettuali che possedeva. Fino ai
greci, quando ancora gli strumenti intellettuali erano ai primi livelli, questa
spiegazione fu basata sul mito, espresso primo in forma rozza e poi via via in
una forma sempre più elaborata man mano che i livelli di struttura mentale
passavano da quello sensomotorio dell'uomo primitivo a quello simbolico-transduttivo delle civiltà
mesopotamiche ed egiziana.
Il mito è stata la massima espressione intellettuale delle civiltà dell'Antico
Oriente: la fonte regolatrice di tutti i rapporti, da quello istituzionale a
quello sociale L'uomo, in queste
società, è una creatura degli dei, da cui ha ricevuto tutto e a cui deve tutto,
compreso la vita, che non gli appartiene.
I greci rappresentano un punto di svolta nel pensiero dell'uomo. Con
essi scompare l'uomo-massa delle antiche civiltà e viene alla ribalta
l'uomo-individuo padrone dei propri
destini e dotato di una curiosità intellettuale sconosciuta prima di lui: la
ricerca della conoscenza fine a se stessa; cioè, la conoscenza per amore della
conoscenza e non per trarne un utile immediato o futuro. E' da questo momento
che nasce il pensiero speculativo, il pensiero che va alla ricerca del perchè
delle cose e non del come esse avvengono. E questo spostamento dal come al
perchè rappresenta una rivoluzione che ha cambiato i destini dell'uomo
I primi perchè, quelli dei filosofi naturalisti delle città ioniche del
VI secolo a.C., ebbero delle risposte intuitive, che scaturivano dalla
riflessione-osservazione sulla realtà circostante. Ma queste risposte
intuitive, intrise da un nascente razionalismo, ebbero il merito di iniziare un
metodo di lavoro e di ricerca che doveva dare i suoi frutti più maturi con i
filosofi del V e del IV secolo. Il come,delle prime civiltà, non veniva
rinnegato, ma assumeva una diversa valenza. Da finalità, si trasformava in
strumento di indagine per capire,
attraverso l'osservazione e la descrizione accurata delle cose, il meccanismo
dei fenomeni e la natura della cose stesse.
Il come descrittivo-analitico dei greci ( e del mondo moderno ) era il
superamento del come narrativo delle antiche civiltà, che non spiegava nulla,ma
forniva semplicemente una giustificazione dell'esistente e dei suoi fenomeni, e
costituiva un insostituibile metodo di indagine per arrivare al perchè, alla
causa, dei fenomeni attraverso una spiegazione fisica e non antropomorfica,
come avveniva nel mito.
La novità assoluta, introdotta
dal pensiero speculativo dei greci, consiste in questo spostamento dalla
spiegazione antropomorfica ( mito ) alla spiegazione fisica. " Il pensiero personalistico e il
pensiero causale si escludono a vicenda. L'uomo primitivo fa risalire gli
eventi che vuol comprendere non già ad elementi della stessa specie, ma ad
elementi di specie diversa, non ad un oggetto, non ad una cosa, ma ad una
persona. Quando vuole spiegare alcunché... non si domanda... ' come è avvenuto
questo ?', ma 'chi l'ha fatto'. L'attribuzione dei fenomeni ad una persona
fittizia impedisce la ricerca delle cause..." ( Guthrie, 1986: 85 ). Con i
greci il mito veniva messo da parte, almeno nella ricerca delle origini.
Sopravvisse nel mondo sociale. Ma anche qui gli dei avevano cambiato natura.
Non erano più gli dei terribili e terrificanti delle prime civiltà, la cui
potenza terrorizzava l'uomo, ma erano gli dei che appartenevano alla stessa
razza degli uomini, come dirà Pindaro, con i quali erano in costante contatto,
ed erano mossi dalle stesse passioni.
La scoperta della riflessione-descrizione costituì la base da cui
scaturirono tutti gli altri strumenti del pensiero razionale greco. E la
razionalità divenne il fondamento della conoscenza. Parafrasando un detto
moderno, si può dire che tutto veniva spiegato all'interno della razionalità e
nulla al di fuori di essa. Ma la vittoria della ragione non era venuta per
restare per sempre. La lotta era destinata a ritornare sotto altra forma e
sotto altra veste. E questa volta la contrapposizione non sarà più tra mito e
ragione, ma sarà tra fede e ragione ( Sambursky, 1963: 224). Perchè questo accada bisognerà aspettare il
cristianesimo e l'impatto che esso avrà
sul mondo dopo aver assorbito il pensiero greco.
I greci avevano affermato il primato della ragione sul mito. Il
cristianesimo, a partire dal VI secolo della nostra era, affermerà, nel mondo
Occidentale, il primato della fede sulla ragione. E solo a partire dal XII
secolo la ragione ricomincerà a prendere coscienza delle proprie possibilità,
ma, per affermarsi in via definitiva,
dovrà aspettare, dopo un lungo periodo di lotta, il XVII secolo, quando
si stabilirà un equilibrio tra fede e ragione e verranno separati
definitivamente i rispettivi campi di competenza.
Equipaggiata con un robusto pensiero razionale, la natura speculativa
dei greci costruì teorie e sistemi che rimasero ineguagliati fino al XVI secolo
della nostra era. Per circa duemila anni, i greci furono il faro dell'umanità:
la massima espressione intellettuale mai raggiunta dall'uomo in tutti i tempi,
se si eccettuano quelli moderni.
I romani non conobbero nulla di simile: essi non avevano una natura
speculativa ( Losanno, 1978: 26 ). Essi non furono mai in grado di costruire
teorie e sistemi e rimasero sempre conquistati dalla cultura greca. Tuttavia,
il loro livello di struttura mentale non era inferiore a quello dei greci. Era
solo indirizzato verso obiettivi diversi, seguendo un itinerario diverso.
Mentre i greci avevano sviluppato un pensiero speculativo che abbracciava
generalizzazioni che sfociavano in teorie e sistemi sui problemi dell'uomo e
sulla conoscenza e non aveva alcun impatto concreto e particolare sulla vita quotidiana
dell'organizzazione sociale, i romani avevano prodotto un pensiero pragmatico,
che partiva dall'ordinamento concreto della realtà esperienziale dell'uomo per
inquadrarlo, successivamente ( Turner, 1941: 930 ), in un codice sistematico di
generalizzazioni che regolamentavano i rapporti e la vita tra le genti.
In altri termini, nei livelli
di struttura mentale, tra i greci ed i romani non c'è molta differenza. Mentre
i primi, dotati di un'intelligenza speculativa, diedero vita alla scienza e
alla filosofia, elaborando sistemi e teorie, i secondi, dotati di un'intelligenza
pragmatica, diedero vita alla codificazione del diritto e all'elaborazione del
concetto di norma generale. La codificazione del diritto in branche ( ius
privatum, ius gentium ) era qualcosa di sconosciuto nell'antichità. "
Altri stati avevano avuto leggi e legislatori coma Ammurabi e Solone che
avevano elaborato piccoli codici di legislazione umana, ma nessun popolo aveva
mai raggiunto quell'immenso coordinamento, l'unificazione, e codificazione che
occupò le più alte menti giuridiche di Roma, dagli Scevola a
Giustiniano..." ( Durant, 1950, III: 405-406 ). I greci avevano elaborato
delle costituzioni, ma non l'idea di un codice. La conquista di Roma, nel campo
del diritto, fu, in effetti, " una
conquista paragonabile alla formulazione della scienza e della filosofia in
Grecia " ( Durant, 1950, III, 392 ).
" Il diritto fu la massima espressione intellettuale dei romani
" ( Strayer-Munro, 1942: 257 ) e in esso troviamo il loro livello di
struttura mentale, che non era inferiore a quello dei greci, ma era soltanto
indirizzato su di un altro piano, più immediato. Essi erano incapaci di
condurre un ragionamento logico fino alla costruzione di un sistema: ma lo erano perchè non ne vedevano l'utilità " Pensare piuttosto che agire,
speculare piuttosto che applicare le conoscenze, tutto ciò sembrava del tutto
alieno dallo spirito dei romani " ( Hall-Hall, 1979: 68 ).
La logica, che i greci avevano applicato alla matematica, fu applicata
dai romani al diritto con altrettanta efficacia. In sostanza, il pensiero
operatorio concreto fu usato con altrettanta efficacia dai romani nel campo del
diritto.
Nel diritto i romani avevano maturato due istituti che dovevano
costituire il loro più grande lascito alle generazioni successive di tutte le
epoche. Il primo era una concezione della giustizia che andava al di là del
contingente rapporto tra persone fisiche che appartengono allo stesso stato per
abbracciare il diritto delle genti ( ius gentium ), cioè quel diritto che
garantiva la giustizia a tutti gli uomini liberi di qualsiasi nazionalità
all'interno della stato romano prima ( commercianti e stranieri in genere ), e
all'interno dell'impero successivamente
( Watson, 1974). Questa idea di un diritto, che travalicava il concetto,
tradizionale a tutti gli stati allora esistenti, di una giustizia riservata
solo ai cittadini, per abbracciare l'intera umanità degli uomini liberi, era
stata mutuata, attraverso il filtro stoico ( Dilthey, 1974, I: 18-19 ), dalla
filosofia greca e, in particolare, da
Aristotele, che aveva diviso il diritto in due parti: alla prima apparteneva il
diritto fatto dagli uomini; alla seconda un diritto più ampio che si riferiva a
tutta l'umanità: il diritto di natura. Era un concetto più alto di giustizia
che i romani fecero proprio perchè ne avevano maturato l'esigenza pratica e
concreta nella psicologia generale dell'epoca e questa applicazione implicava
un livello di struttura mentale certamente non inferiore a quello dei greci,
anche se espresso in modo diverso.
Nella realtà concreta, il
sistema di giustizia e il diritto dei greci, in effetti, era meno evoluto di
quello dei romani. Il diritto greco,
" nella forma, rassomigliava piuttosto alle leggi delle XII Tavole
che alla più matura legislazione di Roma repubblicana. Ed in esso non si nota
alcun tentativo di definire le parti o l'oggetto del contendere attraverso
l'uso di sinonimi e di rimanere rigorosamente fedeli ad essi una volta che
questi erano stati adottati... E le leggi non contenevano principi generali che
si applicavano a casi concreti, ma erano norme che regolamentavano i singoli
casi, per questo motivo esse dovevano essere molte e molto dettagliate " (
Britannica, 1962, X: 830 ).
I greci, con il loro pensiero speculativo, erano stati capaci di
teorizzare il diritto di natura perchè intuito logicamente, ma solo i romani lo
potevano applicare. La loro mentalità
era pragmatica. Essi rifuggivano da un discorso prettamente teorico senza alcun
riferimento ad una applicazione tangibile e concreta. E la loro grandezza sta,
appunto, in questo: pragmaticamente essi potevano applicare concetti astratti,
quali quello del diritto di natura, ma questa applicazione non nasceva da una
deliberata scelta ideologica: essa nasceva dall'esigenza concreta di rispondere
ad un reale bisogno che si produceva nella società ( Gasset, 1973: 292 ). Nel
mondo romano, non era la norma generale ed astratta che determinava il
comportamento, ma era il comportamento che produceva la norma astratta Era un processo che andava
dall'esterno verso l'interno: dalla prassi alla teoria della codificazione e
della sintesi.
La fecondità e la maturità dei principi, di cui il diritto romano è
portatore, ne hanno fatto la base del diritto di tutti gli stati neolatini
moderni ( Losanno, 1978: 23 ). Ma anche i popoli anglosassoni, che pur hanno
avuto una diversa esperienza giuridica, che si richiama direttamente
all'esperienza dei popoli germanici, hanno preso a piene mani dai principi del
diritto romano o quanto meno, " molto di più di quanto generalmente si
ammette " ( Watson, 1970: 3 ). Per esempio, il principio e il concetto di
aequitas del diritto romano, cioè quel diritto che sta al di sopra e al di
fuori della legge ordinaria tutte le volte che questa non riesce a garantire,
per la sua rigidità, una giustizia giusta, lo ritroviamo riprodotto nel diritto
anglosassone dell'Equity
Con il secondo lascito, il diritto romano, nel suo duplice livello di
ius privatum e ius gentium, era portatore di una visione della giustizia che
garantiva al singolo la più completa tutela. La norma non si limitava alla
regolamentazione del comportamento esteriore, ma andava in profondità alla
ricerca dell'intenzionalità del soggetto; cioè, andava alla ricerca della
volontà del soggetto nel momento in cui commette il reato. Per il diritto
romano, uccidere accidentalmente e uccidere intenzionalmente non è la stessa
cosa. Una distinzione questa che non era percepita nel livello di struttura
mentale pre-operatorio delle antiche civiltà e non sarà percepita neanche nel
livello pre-operatorio dell'alto medioevo. Nel diritto romano " la volontà
cosciente diviene il fondamento del diritto; le cause che infirmano il volere,
come l'errore, il dolo, la violenza, sono al tempo stesso menomatrici del
rapporto giuridico; 'la verità dei fatti piega benignamente la ragione delle
leggi ' (Vico). Sorgono così i tardi istituti della cura e della restitutio in
integrum sconosciuto al diritto antico; la minuta casistica delle gradazioni
della culpa, del dolus, dell'error, sonda le ignorate profondità del labirinto
spirituale; l'aequitas rompe il rigido formalismo dello ius strictun; Cesare,
come legislatore, spinge il riconoscimento della libertà individuale al punto
da considerarla come un bene assimilabile alla proprietà, come un diritto
inalienabile dell'uomo; tale è lo spirito della sua legge contro l'antico
procedimento della bancarotta che poneva il debitore alla mercé del creditore
" ( De Ruggero, 1972, I: 18 ). Ma la tutela dell'individuo andava ben oltre.
" Antonino, un prodotto della scuola stoica, dichiarò che in caso di
dubbio la giustizia doveva essere pro reo e che ogni imputato è innocente
finché non viene provata la sua colpevolezza - due supremi principi del diritto
civilizzato moderno " ( Durant, 1950, III: 392 ).
Se nel campo della scienza e
della filosofia, i romani erano rimasti dei dilettanti che non seppero andare
oltre la compilazione di "... enciclopedie e agili compendi che fornissero
facili sintesi di conoscenza greca " ( Hall-Hall, 1979: 66 ), nel diritto
avevano raggiunto un livello di struttura mentale pari a quello dei più maturi
filosofi greci, con la sola differenza che il loro prodotto non fu la conquista
di un singolo pensatore, ma fu la conquista di una psicologia collettiva e di
una civiltà nella sua evoluzione, da forme rozze e semplici a forme sempre più
sofisticate e complesse, dove le azioni venivano giudicate in base alle
intenzioni e a tutte le possibili attenuanti. Una forma di giustizia che si
ritroverà soltanto nell'poca moderna.
Ma, con le invasioni barbariche del V secolo della nostra era, questo
era un livello di struttura mentale che era destinato a perdersi nel breve
periodo. Alla caduta dell'impero romano,
il livello di struttura mentale maturato subì un brusco arresto e un cospicuo
regresso nell'' Europa Occidentale. Nel campo della giustizia si ritornerà al
realismo morale delle civiltà dell'Antico Oriente e si giudicheranno gli
individui non in base alla intenzionalità, ma in base alla gravità del reato (
Radding, 1979: 968 ).
" Lo studioso, che attraversa questi secoli delle invasioni
barbariche, prova un senso di stupore e di smarrimento nel constatare che tutto
il grande lavoro mentale dell'età precedente sembra ad un tratto vanificato. Il
pensiero che, ancora nel V secolo, si muoveva tra gli ardui problemi della
metafisica, nel VI e nel VII balbetta le prime nozioni della grammatica e della
logica " ( De Ruggero, 1972, II: 383 ). La cultura greca, con tutto quello
che aveva prodotto, andò quasi interamente perduta, tranne qualche rara ed
incompleta traduzione La
tradizione rimase viva, invece, nell'Europa Orientale con l'impero romano
d'Oriente, ma essa ristagnava.
Questo obliteramento della cultura, tuttavia, non era dovuto ad una
senescenza del pensiero. Si trattava, invece, di un suo totale annientamento e
di un nuovo cominciamento su basi alquanto differenti, come vedremo (logica
terministica di Boezio). Già nelle opere di Boezio e Cassiodoro, che pur
appartenevano con un piede al mondo greco-romano che spariva, si vedeva questa
regressione del pensiero. E non si trattava solo della sparizione dei testi
della cultura classica. La verità di fondo era l'incapacità intellettuale degli
uomini di quest'epoca di capire quei testi ( Brown, 1974: 146 ). Il fenomeno
era spiegabile con il fatto che in questi secoli, se si fa eccezione di uomini
come Boezio e Cassiodoro, che appartenevano al vecchio mondo in sfacelo, la
classe dominante era di origine germanica e all'interno di questa classe non
c'era una sottoclasse colta ed erudita. I germani erano dei guerrieri che
vivevano in forma tribale secondo usi e costumi tramandati dalla consuetudine.
Il loro cervello, per quanto agile , sveglia e ricettiva fosse la loro
intelligenza, era completamente grezzo e incolto e la cultura non è qualcosa
che si acquista in forma matura. Essa richiede una lenta maturazione attraverso
un processo ben preciso che può essere così schematizzato: acquisizione dei
dati della conoscenza----> assimilazione e accomodamento di questi dati al
proprio sustrato culturale----> rielaborazione di questi dati sotto forma di
imitazione creatrice----> contestazione
e/o superamento dei dati sotto forma di creazione originale. Questo è stato il
processo che si è verificato nel millennio che va dal VI al XVI secolo della
nostra era. Ma questo era stato anche il processo che si era verificato nella
Grecia classica rispetto alle civiltà dell' Antico oriente. E questo sarà il
processo che si verificherà nel Rinascimento italiano e nell'Inghilterra della
Rivoluzione Industriale. Solo la civiltà Islamica non terminò il processo, come
vedremo.
I livelli di struttura mentale non si possono saltare, ma devono essere
percorsi o ripercorsi uno di seguito all'altro, anche se la permanenza in un
singolo livello può essere abbreviata. L'uomo è riuscito a maturare, nella
storia, i diversi livelli di struttura mentale perchè è riuscito a produrre
conoscenze che erano indispensabili alla maturazione di ogni singolo livello. E
il successivo livello veniva prodotto, dopo aver acquisito il precedente per
via ontogenetica, solo se si producevano nuove informazioni o si decentrava il
proprio pensiero fino a cogliere nuovi nessi e nuove relazioni tra le
informazioni esistenti, che prima non venivano colte. Chi non vive in un
ambiente adatto o maturo, che inglobi nel suo vivere quotidiano ( della struttura sociale ) tutte le
conquiste ( conoscenze applicate ) avvenute in via filogenetica, non può ricapitolare
in via ontogenetica la strada percorsa dalle civiltà precedenti, ma la può solo
ripercorrere in via filogenetica se non vuole perdere la sua identità anche se le tappe intermedie possono
essere ripercorse in secoli invece che in millenni. Ed è quello che è avvenuto
nell'alto medioevo. La classe dominante germanica aveva un livello di struttura
mentale allo stadio del pensiero pre-concettuale
( Radding, 1978: 577-78) e si era calata in una civiltà che si trovava allo
stadio della operatività concreta, anche se il paradigma era in crisi.
Con le invasioni barbariche c'è un nuovo cominciamento nei livelli di
struttura mentale
L'uomo di quest'epoca era un uomo che aveva perso le sue antiche certezze. Il
romano era caduto e sparito insieme all'impero. Egli risorgerà solo dopo il
mille. Nel frattempo, chi dominava la scena nel campo politico, come in quello
culturale, era il 'barbaro'. E, in effetti, in questo periodo, tutta la classe
dirigente e 'colta ' è di origine 'barbara'. La cultura, come l'innovazione
politica, viene dal nord 'barbaro'.
Fino al mille, la storia dell'uomo europeo è la storia della classe
egemone che è tutta, o quasi, di origine 'barbara'. Quest'uomo è povero
intellettualmente e culturalmente. Ha una grande ammirazione per gli uomini
dell'antichità, ma sa, altrettanto bene, che egli è un nano, un " omuncolo
", come dirà Alcuino, di fronte ad essi. Ogni competizione sarebbe stata
impossibile ( è quello che afferma Alcuino stesso ). Egli può solo compilare
dei compendi o chiosare il pensiero di questi autori classici per renderlo
accessibile alla classe dirigente dell'epoca, la cui mentalità è molto semplice
(Taylor, 1911, I: 219 ) e quasi completamente sguarnita d'istruzione.
La compilazione di questi manuali, basati sulle conoscenze greche, fu
l'attività principale e più importante di questo mondo, che andava sempre più,
e progressivamente, chiudendo le porte a tutta la cultura antica. Le conquiste intellettuali dei greci e la
saggezza giuridica dei romani si andavano disperdendo in mille rivoli nella
reminiscenza di uomini mediocri in un Europa percorsa dalle orde barbariche,
che erano indifferenti alla cultura. La civiltà di queste orde era illetterata.
E lo rimarrà ancora per lungo tempo. Basti pensare che Carlo Magno, il primo
grande imperatore dell'era cristiana, in pieno IX secolo, non sapeva leggere e
scrivere, come del resto la stragrande maggioranza dei suoi nobili. Tuttavia,
" la tradizione di queste enciclopedie fu una benedizione per più aspetti.
Mentre sintetizzava ed esponeva molte idee antiche che altrimenti sarebbero
andate perdute, creava una forte dipendenza verso l'autorità. Nello stesso
tempo, però, adoperava un linguaggio allegorico che deliberatamente nascondeva
la verità scientifica " ( Stock, 1976: 8 ).
L'uomo nuovo
farà capolino dopo il mille, con la ripresa dell'attività economica, con
l'apertura dei feudi al commercio e con la ripresa generale, e nascerà dal rimescolamento della
popolazione germanica con quell'uomo romano che nell'epoca precedente era
scomparso ( Lopez, 1975 : 18 ). Quest'uomo sarà portatore di un'altra
mentalità, di un'altra esigenza culturale.
Tuttavia, l'elemento germanico si veniva ad innestare in una situazione
in movimento nella società latina del V secolo. All'interno di questa società
si era formato un proletariato, per dirla in termine toynbeeiani, che aveva
abbracciato una nuova fede religiosa: il cristianesimo.
Il cristianesimo era portatore di un messaggio nuovo ed accattivante con
due concetti rivoluzionari, anche se non esplicitati. Il concetto di Dio-padre
stabiliva, nello spirito, un'uguaglianza tra tutti gli uomini ( primo concetto
rivoluzionario ) che si sarebbe realizzata nel Regno di Dio di prossimo avvento
( secondo concetto rivoluzionario ) e perciò ogni uomo doveva prepararsi
all'evento migliorando se stesso e liberandosi di tutte le passioni terrene.
Nello stesso tempo il concetto dell'uomo creato ad immagine e somiglianza di
Dio dava un taglio netto all'animismo pagano e differenziava definitivamente
l'uomo dalla natura, la quale era stata creata a suo beneficio ( Whyte Lynn, 1952: 56-58 ): egli poteva
godere dei suoi frutti, ma non poteva alterarne il corso.
Sin dall'inizio, il cristianesimo stabilisce un dualismo tra l'uomo e il
cittadino. Come uomo ha un'attività interiore che lo collega direttamente con
Dio senza bisogno di segni esteriori (
doni, sacrifici, ecc. ). Ed è questa nuova ed inespressa attività spirituale
che fa fare un balzo in avanti all'individuo e lo fa scoprire uomo, portatore
di diritti e direttamente partecipe della divinità, che è in lui, in quanto Dio
lo ha creato a sua immagine e somiglianza, senza la intermediazione di dei o di
sacerdoti . L'uomo viene preso in
considerazione per la sua natura e non per la posizione sociale che occupa,
come avveniva nelle società
antiche. Il povero, il diseredato, non
sono più i reietti in preda alle forze del male, ma, con Cristo, diventano gli
eletti, a cui è riservato il regno dei cieli, con un capovolgimento totale del
pensiero antico, in cui al ricco, colui che poteva offrire grossi sacrifici,
era riservato il posto accanto alla divinità ( De Ruggero, 1972: 84 ). Come uomo egli deve la sua lealtà a Cristo,
suo salvatore; come cittadino, invece, deve la sua lealtà allo stato che lo
nutre e lo protegge ( " dai a Dio
quello che è di Dio e a Cesare quello che è di Cesare ) La fine del dualismo si verificherà
solo con l'avvento del Regno dei Cieli, dove regnerà solo la legge di Dio.
La scoperta dell'uomo da parte del cristianesimo, dell' uomo quale portatore di diritti, a cominciare
da quello di uguaglianza, costituiva un punto cardine della dottrina cristiana e questa scoperta sarebbe
stata rivoluzionaria se se ne fosse rivendicata la immediata applicazione nel
mondo terreno ( ma i reali termini del problema, con tutte le sue implicazioni
sociali e politici, sfuggiva a loro stessi ). Nel mondo terreno, invece, i
primi cristiani , che aspettavano la prossima fine del mondo e l'instaurazione
del Regno di Dio, dove si sarebbe realizzata la vera uguaglianza tra gli
uomini, accettavano l'ordine sociale esistente e quindi giustificavano non solo
la disuguaglianza, ma anche la schiavitù (Childe, 1949: 290).
Il cristianesimo offriva all'uomo la parola di Dio, il Verbo, che gli
prometteva il Regno della felicità eterna e, con questa parola, l'uomo compiva
il suo viaggio in questo mondo in attesa della realizzazione del Regno, in cui
egli avrebbe, finalmente, realizzato le sue aspirazioni di sempre: la vita
eterna e l'abolizione di ogni distinzione sociale. La dottrina era
rivoluzionaria e fece molta presa dapprima sulle classi più diseredate, ma,
successivamente, quando l'autorità della stato
incominciava a vacillare e l'economia andava a rotoli, fece molta presa
anche sulle classi dominanti. In un mondo di insicurezza politica, economica e
sociale, l'uomo rivolgeva il suo sguardo verso una fede che gli prometteva un
mondo diverso e migliore, dove sarebbero finite le sue tribolazioni.
Il cristianesimo aveva scoperto l'uomo ( Whitehead, 1961: 112 ), lo
aveva rigenerato col battesimo ( Ullman, 1980: 21 ), ma lo aveva reso, sin
dall'inizio, un uomo in sedicesimo, un omuncolo, come dirà più tardi Alcuino.
Gli aveva tolta la sua individualità e lo aveva massificato, con intenti
diversi e diverse finalità, come nelle civiltà dell'Antico Oriente. Gli aveva
tolta la capacità di pensare con la propria testa e lo aveva incatenato ai
sacri testi. Ogni forma di individualità, ogni forma di pensiero originale, veniva
bollata come eretica. E l'abiura era l'unica salvezza lasciata a chi aveva
osato allontanarsi dal rassicurante grembo dei sacri testi biblici e dei
dottori della chiesa.
" Circa dieci anni dopo l'Editto sulla Tolleranza, Costantino il
Grande adottò il cristianesimo come religione di stato. Questa decisione
inaugurò un millennio in cui la ragione fu incatenata, sebbene non
schiavizzata, e non si fecero più progressi nella conoscenza.
" Per tutti i secoli in cui
erano stati una setta al bando, i cristiani avevano rivendicato il principio di
tolleranza giustificandolo col fatto che la fede è un atto della volontà libera
e non un atto che può essere imposto o meno con la forza. Ma quando la loro
fede divenne il credo dominante ed ebbero la forza dello stato in loro
sostegno, essi abbandonarono questa dottrina politica e si imbarcarono
nell'impresa di attuare la più completa uniformità nel pensiero dell'uomo sui
misteri dell'universo ed adottarono una più o meno politica di coartazione del
pensiero... Per tutto il periodo in cui il cristianesimo esercitò la sua
potente influenza, la ragione fu incatenata nella prigione che il cristianesimo
aveva costruito intorno alla mente dell'uomo. Essa, in vero, non fu inattiva,
ma la sua attività assunse la forma di eresia " ( Bury,1955, 50 ).
L'uomo cristiano aveva una sola e fondamentale preoccupazione: la
salvezza individuale. La cosa pubblica non era nei suoi pensieri. Essa non
poteva essere salvata. Quest'uomo era cosciente della sua pochezza. E' un uomo
che non osa perchè è cosciente di non avere le qualità per osare. La sua
struttura mentale è regredita. Gli autori classici sono visti come dei giganti,
la cui grandezza è motivo di ammirazione e, nello stesso tempo, motivo per la
presa di coscienza della propria pochezza. E' un uomo senza capacità critiche o
logiche per perseguire un proprio pensiero o una propria visione del mondo.
Il mondo fisico era il mondo delle tentazioni e un luogo di espiazioni.
L'uomo, per la nuova fede, che gli aveva gettato sulle spalle il grosso
fardello del peccato originale, doveva operare in questo mondo per acquisire
meriti per ricongiungersi col divino, di cui era promanazione. In questo modo
si realizzava un antico sogno dell'umanità, che, in tutta la sua storia, aveva
sempre tentato di tenere un collegamento con la divinità in cui aspirava
annullarsi. Nel mondo mesopotamico questo collegamento si era realizzato con la
totale sottomissione dell'uomo alla divinità, che tutto aveva creato e tutto aveva
predisposto. Nel mondo greco, l'uomo scelse la divinità come compagna di
strada, da cui estraeva ispirazione e forza, ma in sostanza erano della stessa
pasta. Per il cristianesimo, invece, che aveva scoperto il libero arbitrio, il
collegamento si instaurava in un rapporto di amore. La divinità aveva tutto
creato, ma aveva lasciato l'uomo libero di scegliere la propria strada,
cercando il ricongiungimento col divino o perdersi seguendo le forze del male.
Egli veniva, così, responsabilizzato. La sua salvezza non dipendeva da nessuno.
Solo egli stesso poteva salvarsi o dannarsi per sempre. Ed egli scelse la prima
strada.
In questo clima psicologico, il mondo reale, il mondo fisico, era da
rifuggire. La teoria tolemaica, che il cristianesimo aveva fatta propria, aveva
messo la terra al centro dell'universo, ma " stare al centro del mondo non
significava stare al posto d'onore: anzi era quello il posto più lontano
dall'Empireo, il fondo della creazione, dove ristagnavano le sozzurre e gli
elementi più bassi. Il vero centro, infatti, era l'inferno: nel senso spaziale,
il mondo medievale era letteralmente diabolocentrico. E tutta la regione
sublunare, naturalmente, era senza confronti inferiore ai cieli splendenti e
incorruttibili che stavano al di sopra della luna " ( Lovejoy, 19 109 ).
Con un mondo così delineato non ci
poteva essere alcun contatto interattivo
" perchè Satana regnava sulla terra e le sue coorti erano
onnipresenti " ( Kline, 1964: 91 ). La ricerca della conoscenza delle
forze e del funzionamento di questo
mondo non avrebbe dato all'uomo nulla che potesse essere immediatamente
utilizzabile per il suo fine ultimo: la sua salvezza, anzi " la scienza
era il peccato perchè la conoscenza che essa dava era acquisita al prezzo della
dannazione eterna " ( Kline, 1964: 91 ).
Quest'uomo non si aspettava di compiere grandi imprese, come gli
antichi, nè conquistarsi una fama di originalità ( Fichtenau, 1972: 137 ). Il valore
che gli veniva insegnato era contrario a qualsiasi forma di preminenza:
l'umiltà. Ma era un'umiltà diversamente intesa da come l'intendiamo oggi. Per
quest'uomo, essa significava annullarsi di fronte all'autorità e di fronte alle
cose del mondo: di tenere gli occhi bassi ( regola di S. Benedetto ), per
terra. Tenerli in alto significava avere delle curiosità sulla cose del mondo;
significava cercare di indagare sulla natura delle cose. Per questo motivo la
curiosità era apertamente condannata ( Whewell, 1988, I: 189 ). Solo con S.
Bernardo il concetto di umiltà assumerà un altro significato (Radding, 1978:
595 ). Il verbo di quest'uomo era la Sacra Scrittura:
la sua verità ultima ed incontrovertibile. E tutta la sua vita era spesa per
acquisire e diffondere il Verbo. " Cosa possiamo fare di più degno, noi
omuncoli, giunti alla consumazione dei secoli ", scrive Alcuino, "
che diffondere la lezione degli Apostoli e del Vangelo? Forse escogitare nuove dottrine, trattare
argomenti peregrini, procacciandoci un'inutile fama per pensieri inauditi
"( Fichtenau, 1972: 136 ).
Per quest'uomo, la ragione non è più l'arbitra assoluta della verità.
Questa funzione viene assunta dalla fede, che tutto giustifica. Tra fede e
ragione non c'è e non ci deve essere contrapposizione perché è la fede che deve
correggere la ragione quando questa si avvia per delle strade che conducono
lontano dalle Sacre Scritture. Se con i greci la ragione era lo strumento
attraverso il quale si spiegavano tutti i fenomeni, con l'uomo scoperto dal
cristianesimo la ragione viene messa in secondo ordine. Il mondo ed i fenomeni
della natura non sono più spiegati razionalmente, ma vengono giustificate
attraverso la fede (Hall-Hall, 1979: 93 ).
" Avendo spostato il baricentro degli interessi dell'uomo da questo
mondo all'altro, il cristianesimo offriva spiegazioni supernaturali degli
eventi fisici e, così facendo, scoraggiava la ricerca delle cause naturali;
molte conquiste fatte dai greci in sette secoli furono sacrificate alla
cosmologia e alla biologia del Genesi " ( Durant, 1950, IV: 78 ). Il
cristiano non doveva cercare alcuna verità sul principio del mondo fisico o
sulla natura dell'uomo. Egli era già in possesso della verità assoluta per
mezzo della Sacre Scritture a cui doveva conformare la sua condotta di vita (
Morghen, 1972: 24-26 ). Per compiere il suo viaggio in questo mondo, all'uomo
non era necessario il sapere. E S. Bernardo esprimerà chiaramente questo
concetto quando affermerà " che ci sono alcuni che vogliono imparare soltanto per sapere e tale curiosità
è indegna di un uomo; altri vogliono imparare soltanto per essere considerati
bravi e questa vanità è vergognosa; altri ancora imparano per fare commercio
della loro scienza, per avere ricchezze e onori, e questo commercio è
disonorante " ( Wolff, 1973: 247 ).
La natura era stata creata da Dio per essere letta ad edificazione del
credente che vi trovava conferma delle Sacre Scritture ( Gregory, 1979: 273 ).
In questo modo, la sola fonte di conoscenza che si doveva ricercare non erano
le leggi fisiche dell'universo, ma quelle spirituali, i cui simboli erano
diventati la preghiera e il monastero. E sono questi due elementi che
contribuiranno, per un verso, alla decadenza intellettuale dell'uomo nei secoli
dell'alto medioevo. Dall'altro verso, il monastero è stato il luogo dove la
cultura classica si è conservata per l'umanità futura ( Pirenne, 1971: 108
).
Era la concezione del fine ultimo dell'uomo che spingeva il cristiano a
dedicarsi alla contemplazione di Dio. La cultura classica, con la sua vitalità
ed i suoi valori pagani, era antitetica a quella cristiana e, perciò, a partire
dalla fine del VI secolo, essa fu apertamente scoraggiata, se non proibita Essa si rifugia nei monasteri e con
essa spariva una palestra intellettuale insostituibile per l'avanzamento
dell'intelletto umano. Eppure i padri fondatori ( S. Ambrogio, 339-397, S.
Gerolamo, 340-420, S. Agostino, 354-430, ecc.), tutti vissuti a cavallo del V
secolo, erano essi stessi il prodotto finale della cultura pagana, di cui era
imbevuta la loro forte personalità. Infatti, tutti e tre non nacquero per la
chiesa: Essi avevano dedicato la prima parte della loro vita al mondo laico e
pagano, e solo successivamente furono 'chiamati' ai misteri dalla fede, in cui
portarono l'irruenza, la determinazione e le grandi capacità organizzative ed
intellettuali che avevano maturato al di fuori della chiesa.
Questi uomini, di pensiero e di azione, si erano formati nella società
civile e sarebbero stati laici se il mondo politico- istituzionale non fosse
stato in decadenza. Indipendentemente dalla loro 'chiamata', essi abbracciarono l'unica strada che li
avrebbe messi in condizione di esercitare la loro forte personalità. Essi erano
capaci non solo di un forte pensiero razionale, ma anche, e soprattutto, di un
pensiero originale in un campo, quello religioso, che, alla loro epoca, non era
stato ancora ben definito o quantomeno sistematizzato. Così, uomini come
Ambrogio, Agostino, Pelagio, Gerolamo e Gregorio Magno in Occidente, Attanasio,
Basilio, Gregorio Naunzian, Giovanni Crisostomo e Giovanni di damasco nell'est,
col loro pensiero, formarono la dottrina della chiesa.
Tra questi grandi uomini ci fu una battaglia di idee ( v. Pelagio,
Donatisti, ecc. ). I perdenti vennero dichiarati eretici e banditi dalla chiesa
ufficiale. I vincitori, invece, furono dichiarati, successivamente, 'dottori
della chiesa' e " soltanto un migliaio di anni dopo la cristianità
produsse uomini uguali a costoro in sapienza e cultura " ( Russel, 1966,
II: 448 ). Ma essi vissero in un'epoca in cui il vecchio non era ancora morto (
l' impero ) e il nuovo non era ancora venuto, anche se era alle porte (
invasioni barbariche ). In quest'epoca di crepuscolo, essi si erano formati (
come struttura mentale ) e abbracciarono l'astro nascente ( la chiesa ), che,
dopo il riconoscimento politico di Costantino, che l'aveva elevata a religione
di stato, si era affermata come la sola istituzione che poteva garantire un
punto di riferimento a tutto il mondo latino. E a questo astro nascente essi
diedero le basi dottrinarie. Ma il pensiero di questi uomini aveva abbandonato
la razionalità per seguire l'intuizione ( De Ruggero, 1972: 385 ). La verità,
per loro, era percepita intuitivamente e non fornirono mai una dimostrazione
logica rigorosa di alcunchè. L'ispirazione, l'intuizione, erano considerate
superiori alla razionalità perchè le prime emanavano direttamente da Dio, la
seconda (la razionalità) era un prodotto dell'uomo. La seconda, perciò, era
fallace: le prime non potevano esserlo. Con i dottori della chiesa si perde
l'originalità di pensiero e, per ritrovarla, bisognerà aspettare fino al XVI
secolo ( Russel, 1966, II: 472 ). Dopo di loro, con le invasioni barbariche,
c'è il vuoto più completo. L'uomo cessò di pensare con la propria testa e dedicò tutti i suoi
sforzi alla ricerca della salvezza. E' S, Agostino stesso che esprime questo
nuovo atteggiamento mentale quando scrive ad una amico che non si deve sforzare
di capire perchè " la fede viene prima del capire " ( Durant, 1950,
IV: 70 ) .
In quest'epoca, quando l'uomo usa
la ragione lo fa in un modo molto elementare e superficiale. Il suo pensiero
ritorna ad essere centrato. Egli non
riesce più a vedere tutte le possibili relazioni tra le proposizioni. Quando vuole sostenere un'idea o un punto di
vista in contraddittorio non fa ricorso a proprie argomentazioni, ma ricorre a
citazioni delle autorità o delle Sacre Scritture. Data la sua pochezza
culturale ed intellettuale, di cui è più che cosciente, non può seguire un ragionamento
rigorosamente logico. Egli deve,perciò, difendere il suo punto di vista con citazioni della stessa autorità. Per
quattro secoli, l'attività intellettuale, che si era rifugiata nei monasteri,
fu limitata alla preservazione delle conoscenze del mondo classico e della
patristica. Se ci fu un barlume di attività intellettuale in questi secoli,
essa proveniva dall'Inghilterra e dall'Irlanda.
S. Ambrogio, più uomo politico, pose le basi della futura supremazia
della chiesa. Egli affermò l'autonomia
della chiesa dal potere politico (stato), richiamandosi, abilmente, alla
superiore autorità di Dio tutte le volte che entrava in conflitto con l'imperatore (Moreschini, 1973: 76 ). S.
Gerolamo le diede la sua prima bibbia in latino e " la difese contro tutte
le eresie " ( Easton, 1964: 407 ), ma chi pose le sue basi dottrinarie fu
S. Agostino.
Agostino era di cultura limitata ( Durant, 1950, IV: 74). Ma egli è la
figura fondamentale per capire l'alto medioevo e la sua influenza si farà
sentire fino al XII secolo. Egli subordinò il pensiero razionale al sentimento
e alla volontà. " La sua enfasi soggettiva, emotiva,
antintellettualistica, segnò la fine della letteratura classica e il trionfo di
quella medievale. Per capire il Medio Evo dobbiamo dimenticare il nostro
razionalismo moderno, la nostra orgogliosa fiducia nella ragione e nella
scienza, la nostra incessante ricerca della ricchezza, del potere e del
paradiso terrestre; noi dobbiamo entrare simpateticamente nello spirito di
uomini disillusi da questi obiettivi, che si trovavano alla fine di un
millennio di razionalismo, che trovavano tutti i sogni utopici intrisi di
guerra, povertà, barbarie, che cercavano la consolazione nella speranza della
felicità dopo la morte, confortati ed ispirati dalla storia e della figura di
Cristo, che si gettavano nella misericordia e nella bontà di Dio e che vivevano
nella credenza della Sua eterna presenza, il Suo giudizio inevitabile... S.
Agostino rivela ed esprime questo stato d'animo al di sopra di qualsiasi altro,
persino nell'età di Simmaco, Claudio e Ausonio. Egli è la più autentica,
eloquente e potente espressione dell' Età della Fede della cristianità "
(Durant, 1950, IV: 74-75 ).
Dal VI secolo in poi l'Europa appartiene alla civiltà cristiana: ma è
una civiltà ripiegata su se stessa, che guarda al passato come all'età dell'oro
e al futuro con timore ed aspettazione. Anche se quest'ultimo, tuttavia, non
riservava sorprese. Esso si doveva concludere, nell'anno mille, con la fine
della città terrena e la instaurazione della città di Dio. E l'uomo, in questa
attesa, si rinchiuse in se stesso ed era interessato solo al problema della sua
salvezza nel Regno dei Cieli. Quest'uomo è un uomo intellettualmente povero,
manca di originalità e il suo pensiero è " centrato " ( Radding,
1979: 962) su un'unica realtà: il messaggio escatologico della chiesa e la
potenza di Dio. Per quest'uomo non ci poteva essere " decentramento " del pensiero perchè tutta la sua attenzione era " centrata " su Dio e la Grazia Divina, che
dovevano riscattarlo dal peccato originale e dall'esperienza terrena nel giorno
del giudizio universale, che era prossimo a venire. Tutto avveniva ed accadeva
per volontà di Dio. Non c'era nulla che accadeva per caso. Tutto era stato
previsto da una volontà che era al di sopra di tutti. Quello che, nei tempi
classici pagani, sembrava legato alla ruota della fortuna ( o del caso ) e che
si poteva riversare su tutti indistintamente, nei tempi cristianissimi
dell'alto medioevo accadeva per volontà di Dio. Se non fosse stato così, Dio
non sarebbe stato onnisciente, onnipotente e onnipresente. Il fato dei greci
era una potenza imperscrutabile, a cui tutti si dovevano sottomettere, uomini e
dei. La fortuna ( Radding, 1979: 962 ),
invece, era una dea pagana che non poteva avere corso in questi secoli in cui
la razionalità veniva volontariamente messa da parte. La 'fortuna' ritornerà
solo quando l'uomo si riapproprierà della sua razionalità nel XII secolo e
riallaccerà rapporti diretti con il
mondo classico.
L'uomo dell'alto medioevo non ha una conoscenza diretta di tutte le
informazioni che la civiltà greco-romana aveva accumulato ed schiacciato da un duplice peso:
quello dell' autorità della chiesa e quello dell'autorità degli antichi. Di
fronte ai grandi uomini del passato egli si sentiva piccolo piccolo. Quello che
poteva e sapeva fare era chiosare, parafrasare il pensiero di quelli che egli
credeva dei giganti (Alcuino). Egli inoltre, non aveva nulla di originale da
dire perchè era fermamente convinto che quello che c'era da dire era stato
detto da uomini che egli riteneva irraggiungibili. Il suo compito, programmato
ed istituzionalizzato (v. la regola dell'umiltà di S. Benedetto), era quello di
essere sottomesso, non di osare o guardare al futuro con occhio e mente
indagatrice. Eppure, dal punto di vista della categorie mentali, egli non era
male equipaggiato. Possedeva tutte le categorie mentali che i greci avevano
elaborato nel corso della loro storia (proposizione, sillogismo, logica,
dialettica, reversibilità, ecc.), ma, tranne l'unica eccezione rappresentata da
Giovanni Scoto Eurigenia (IX secolo), non sapeva usarle per impostare un
discorso suo originale e dare un'organizzazione diversa ai dati della
conoscenza per produrre un proprio pensiero originale.
Prima del mille, delle arti liberali, quelle che prevalevano erano
quelle del trivio (grammatica, ecc,) per la loro utilità nell'espressione
scritta. Quelle del quadrivio, anche se non scomparse del tutto, non erano
coltivate (Wolff, 1973: 178). La logica, in questo lungo periodo di quattro
secoli, rimase allo stato infantile perchè essa non fu legata alla matematica.
In effetti, in quest'epoca, la matematica non ebbe molti seguaci. Quella che
imperava era la grammatica (Reichenbach, 1974: 222). Della logica, in
particolare, erano completamente assenti due strumenti che erano indispensabili
per ogni avanzamento intellettuale: il sillogismo modale e la teoria della
dimostrazione ( Britannica, 1962, XIV: 313).
Tuttavia, è in quest'epoca che
si pongono le basi per un nuovo cominciamento nello studio della logica e dello
sviluppo intellettuale. Boezio, " l'ultimo dei romani e il primo degli
scolastici " (Liebeschutz, 1967: 538),e Apuleio, pur se minori ed insignificanti
rispetto alla tradizione culturale antica, sono stati gli iniziatori della
logica 'terministica', che si affermerà nel XII secolo e di cui Abelardo sarà
il primo continuatore. Questo tipo di logica, che non deriva da Aristotele, il
primo teorizzatore della logica, è quello che adottiamo ancora oggi
(Britannica, 1962, XIV: 314 ).
Alla caduta dell'impero romano, la cultura greca andò perduta. Rimase
solo quella produzione latina, non originale, che aveva mutuato molto dalle
opere greche ed aveva creato una specie di summa dette enciclopedie, di cui il
più noto compilatore fu Plinio il Vecchio. All'inizio dell'alto medioevo anche
questa produzione fu trascurata per avere un totale black out nel mondo
intellettuale dell'Occidente. Il pensiero dominante era che la conoscenza era
la fonte di tutti i mali: il Vangelo lodava gli umili, gli incolti, a cui era
riservato il Regno dei Cieli, mentre la conoscenza portava al peccato (Wolff,
1973: 246-48).
La cultura, quella che c'è, si rifugia nella chiesa (o, meglio, la
chiesa si impadronisce della cultura e se ne fa gelosa custode e si arroga il
diritto di fornire il personale istruito che serve alle corti, stabilendo,
così, la sua insostituibile funzione) e il mondo esterno diventa una tabula rasa,
dove re e cortigiani non sanno nè leggere nè scrivere, tranne poche "
fugaci meteore " (Pirenne, 1971: 270-71). La classe egemone, di origine
barbarica, era illetterata. Nè sentiva il bisogno di alfabetizzarsi. Il mondo
in cui viveva era un mondo di violenza, dove l'elemento che contava era la forza e non il sapere (Brown, 1974:
144-45).
Sulla scena di questo mondo europeo che si incontrano due stirpe: quella
germanica, egemone, e quella latina, subalterna. E, fino al XII secolo, è
l'elemento germanico che predomina nello sviluppo intellettuale e il baricentro
culturale, oltre a quello politico, si sposta dal Sud al Nord. Ma era una
cultura che non era riuscita ad
interiorizzare il pensiero classico pagano, nè ad assimilare, per via ontogenetica,
il suo livello di struttura mentale. Essa riusciva solo a percepire l'apparenza
delle cose. Nel campo della conoscenza non riusciva ad andare oltre la
superficie. La profondità avrebbe richiesto capacità diverse e un maggiore
impegno intellettuale in un più lungo periodo di assimilazione, a cui avrebbe
dovuto seguire una fase di riorganizzazione dei dati, sotto forma di imitazione
creatrice, per arrivare, finalmente, alla creazione originale.
I greci crebbero allo sviluppo di un pensiero originale e produttivo
solo dopo otto secoli, dal 1200 al 500 a.C., di interiorizzazione.Le popolazioni
germaniche del nord (anglosassoni inclusi), invece, passarono, in meno di due
secoli, da uno stato di completa incultura ad uno di leadership culturale in Europa.
Gli anglosassoni, in special modo, con lo zelo di neofiti (Pirenne, 1971: 269
), divennero, in meno di due secoli, la punta avanzata della cultura in Europa.
Ma era una cultura che non andava in profondità e che non aveva nulla di
originale perchè riteneva, nelle parole di Alcuino, che la saggezza era stata
prodotta dai classici e dai padri della chiesa. Prima del mille, l'uomo era
schiacciato dall'autorità degli antichi,che riteneva insuperabili. Alcuino,
l'uomo venuto dalla fredda Inghilterra per organizzare la scuola palatina di
Carlo Magno e che fu l'artefice della rinascita delle humanae litterae, disse,
a proposito di Virgilio e di tutti gli autori dell'antichità classica, che egli
non poteva competere con tanto uomo, ma poteva solo chiosarlo a beneficio di
chi era stato appena introdotto alla
cultura. La verità vera, però, era che anche egli stesso non riusciva a
penetrare questi autori e restava in superficie. In effetti, " Alcuino non è cosciente che al di
là delle parole, dei termini, e persino delle regole, c'è lo spirito vivo del
discorso " (Taylor, 1911, I: 219).
Gli uomini di cultura di quest'epoca furono dei traduttori, dei
compilatori, dei glossatori, degli esegeti, dei chiosatori, dei trascrittori,
dotati di superficiali capacità analitiche, ma non sintetiche. Non avevano un
pensiero originale perchè non avevano un proprio pensiero. Non osavano averlo,
come disse Alcuino. Se vogliamo, essi erano delle formiche che raccoglievano il
sapere per preservarlo e tramandarlo ad altre generazioni che ne avrebbero
fatto un diverso uso.
Ma era l'organizzazione stessa della società alto medievale che non era
idonea a promuovere l'avanzamento della cultura. Quelle poche informazioni che
esistevano, sia che fossero tratte degli autori dell'antichità o che fossero il
prodotto di qualche ingegno contemporaneo, avevano una velocità di circolazione
esasperatamente lenta. La struttura politica della società nell'alto medioevo
era fatta di tante piccole comunità autosufficienti e chiuse. Questo provocava
non solo un ristagno economico, ma anche un ristagno culturale con la mancata
circolazione delle idee, delle informazioni e della cultura in genere. Solo
dopo il mille, la rinascita delle città e l'apertura dei commerci daranno un
maggiore impulso alla velocità di circolazione delle informazioni. E questa
nuova tendenza sarà ingigantita, e portata ad un livello mai conosciuto prima,
dalla invenzione della stampa.
Ma fino all'anno mille, l'Occidente è ancora nel pieno sonno della
ragione. La rinascita carolingia è una fugace meteora nel mondo della cultura,
ma non in quello delle sviluppo delle capacità intellettive. E il feudalesimo
che la seguì, con le ultime invasioni del IX secolo, accentuò ulteriormente il
fenomeno della polverizzazione dell'Occidente cristiano in piccole comunità
chiuse e non comunicanti tra di loro (Copleston, 1976, II:136-37). La fiaccola
della cultura, se non si era spenta del tutto, era, però, ridotta ad un
lumicino che veniva tenuto in vita nel chiostro dei monasteri.
In questi secoli bui, il
desiderio di conoscenza, cioè, dell'intima necessità di aprire gli occhi al
mondo esterno per vedere ed apprendere tutto quello che si era prodotto ; il
bisogno di andare alla scuola del mondo da alunni, come avevano fatto i greci
del VII e del VI secolo a.C., passò, nell'VIII secolo della nostra era, alla
risorgente civiltà semitica non
più come tale . ma come Arabia e Islam. " Possiamo dire che dalla metà
dell'VIII secolo alla fine dell'XI. gli arabi ( includendo nei loro ranghi, è
vero, un certo numero di ebrei e di cristiani ) marciavano alla testa
dell'umanità " ( Sarton, 1948: 151 ).
L'Arabia, con la sua capitale Bagdad, che aveva preso il posto
dell'antica Babilonia e della greca Selecia-Ctsifonte (Struik, 1981: 96 ), era
l'erede dell'antica civiltà mesopotamica (Dawson, 1973: 47). Le città
dell'Arabia erano organizzate secondo i vecchi principi della città fortezza
della Mesopotamia, in cui l'organizzazione sociale era basata sul tempio e sulla
divinità, che era il vero signore non solo del territorio, ma anche dell' uomo.
Come nelle antiche civiltà mesopotamiche, l'uomo era lo schiavo ( Brown, 1974:
154 ), il servo di Dio, la cui potenza non aveva limiti. Era il Dio che aveva
creato l'uomo. E l'uomo aspirava a ricongiungersi con la divinità. Maometto, il
profeta di Allah, offrì un modello
religioso globale di organizzazione sociale e promise la ricongiunzione col
divino prefigurando una vita futura fatta di lussi e di benessere. E così,
un'idea, una nuova idea religiosa, aveva fatto rinascere, in mutate circostanze
e forme, la potenza di un'antica civiltà.
La civiltà islamica e la civiltà cristiana dell'Occidente erano entrambe
basate sul fatto religioso: quella islamica come fattore dinamico e trionfante
nel breve periodo; quella cristiana ristagnante e decadente. Un mondo islamico
progressivo ed in espansione e un mondo cristiano retrogrado e chiuso in se
stesso (Mumford, 1973: XXIII). Fino all'XI secolo, gli arabi diventeranno i custodi
ed i propagatori della cultura classica. Ma, nel lungo periodo, la civiltà
vincente doveva dimostrarsi quella cristiana d'Occidente e non per merito suo,
ma per la sua realtà geo-politica.
Quando gli arabi iniziarono la loro espansione politica erano in
possesso solo di una cultura tribale (Singer, 1961:136-37). Essi erano in
possesso di un libro sacro, il Corano, che rappresentava il loro punto di
forza. In effetti, il Corano non era un
libro religioso che rivolgeva il suo sguardo esclusivamente verso un mondo al
di là da venire, ma era un libro che offriva un modello globale di
organizzazione sociale basato sul fatto religioso e in cui il sapere giocava un
grande ruolo. Lo stesso profeta Maometto aveva espresso un atteggiamento di
larga apertura verso il sapere e la conoscenza. " Chi lascia la propria
casa ", egli affermò, " per
ricercare il sapere cammina sul sentiero che conduce a Dio... l'inchiostro
dell'erudita è più santo del sangue del martire " (Syed, 1950, IV: 235).
Gli arabi , nel campo della conoscenza, percorsero la stessa strada dei
greci, ma in forma palese e cosciente: anch'essi andarono alla scuola del mondo
allora conosciuto e ne appresero tutte le conoscenze, da quelle greche a quelle
indiane, a quelle cinesi, e tradussero tutto nella propria lingua. " Le
vecchie culture dei popoli conquistati furono assimilate con avidità "
( Durant, 1950, IV, 237). Nella loro sete di conoscenza, essi si
spinsero, non come conquistatori, ma come alunni, fin dentro l'impero romano
d'Oriente allo scopo di acquisire conoscenze di prima mano. Intere delegazioni
di studiosi vennero inviate in Grecia allo scopo di apprendere tutto sul
pensiero greco e riportare in patria tutti i manoscritti possibili, anche se,
sul proprio suolo, essi potevano disporre, nella città di Gondispur, nella
Persia meridionale (Wolff, 1973: 135), di uno stuolo di studiosi greci che
fuggivano alle persecuzioni religiose di Bisanzio.
" Tuttavia, sarebbe un errore considerare questo periodo come il
periodo dell'ellenizzazione dell'Islam " ( Staley, 1989:355) perchè
l'Islam, anche quando apprese, successivamente, da tutte le altre culture,
conservò sempre la propria identità e la propria originalità. E la sua
originalità " stava nella sua capacità di adattare ai suoi bisogni quello
che prendeva dagli altri e di rigettare quello che era estraneo alla sua
cultura " (Ezzati, 1978: 126 ) .
" Alcuni storici hanno cercato di sminuire le loro grandi conquiste
affermando che essi non ebbero niente di originale e che furono nient'altro che
degli imitatori... Ci potremmo fermare un momento per domandarci che cosa
significa imitare ? Naturalmente tutti noi imitiamo i nostri genitori, i nostri
insegnanti, i nostri eroi; i pedanti imitano malamente; essi copiano solo la
facciata; l'uomo di genio imita l'essenza e crea qualcosa di nuovo. Il vero
scopo dell'educazione è la saggia imitazione degli esempi migliori,
l'imitazione dei metodi e non dei risultati " (Sarton,1950: 30)
Gli arabi furono i primi internazionalisti della cultura ed i primi
cosmopoliti (Stock, 1978: 14 ) e Gondispur divenne il centro culturale del
primo mondo arabo. Essi accettarono tutto da tutte le culture ed accolsero nel
loro interno tutte le personalità di cultura di origine straniera. " Solo
una piccola minoranza dei poeti, degli scienziati, dei filosofi che fecero
della lingua araba la più colta e la più diffusa nel mondo aveva sangue arabo
nelle vene " ( Durant, 1950, IV: 237)
Al-kindi (800-870), " il primo filoso dell'Islam " (Staley,
1989: 355), sintetizzò efficacemente questo atteggiamento mentale, che sarà
tipico del mondo arabo di tutte le epoche, quando affermò, "... nella
prefazione del suo Prima Filosofia: 'é giusto riconoscere tutta la nostra
gratitudine a tutti coloro che hanno contribuito anche se minimamente a
raggiungere la verità, per non parlare di chi ha dato un grosso contributo.
Noi, perciò non dovremmo vergognarci di accettare la verità ed assimilarla da
qualsiasi parte essa provenga, anche quando essa ci viene tramandata dalle
generazioni precedenti o da un popolo straniero. Per chi va alla ricerca della
conoscenza non c'è nulla di più elevato della conoscenza stessa; essa non
sminuisce chi va alla sua ricerca, ma lo rende nobile e gli fa onore. Noi dovremmo,
perciò, rimanere fedeli al principio che abbiamo seguito in tutte le nostre
opere: primo, apprendere tutto ciò che le civiltà precedenti (gli antichi) ci
hanno tramandato sull'argomento; secondo, completare quello che gli antichi non
sono riusciti ad esprimere completamente; e questo secondo l'uso della nostra
lingua, dei costumi della nostra epoca e
le nostre abilità'.
" Tre secoli dopo, Averroè riaffermò questo atteggiamento
cosmopolita come cosa ovvia; fare come aveva fatto Al-kindi era diventata una
pratica consolidata e l'entusiasmo del primo filosofo si era tramutato in
pratica d'insegnamento " (Britannica, 1962, II: 193).
Gli arabi furono i continuatori del pensiero greco, anche se non in
forma originale. Essi erano diventati il deposito-palestra di tutte le
conoscenze accumulate nei quattro angoli della terra, ma non vi aggiunsero
nulla o quasi. Se fossero stati originali avrebbero spinto le conoscenze più
avanti e avrebbero maturato un nuovo livello di struttura mentale, invece essi
rimasero nell'ambito del paradigma culturale e si limitarono ad accettare le
conoscenze ricevute come verità e a commentarle.
" La filosofia araba medievale è quasi interamente basata sul più
recente sillabo greco della conoscenza... Questo sillabo filosofico fu
accettato come la preziosa casa della verità scoperta dagli antichi, e la nuova
tradizione seguì lo statico sistema fissato nelle più recenti scuole
filosofiche neoplatoniche. Esso comprendeva la matematica ( basato sullo studi
di Euclide come inizio), l'astronomia (basata sull'Almagesto di Tolomeo), la
logica ( basata sull'Isagoge di Porfiri e su Aristotele), le scienze naturali e
psicologiche (basate su Aristotele, la metafisica ( basata su Aristotele e sui
neoplatonici), l'etica (basata sui trattati platonici e su Aristotele) e la
politica (basata, se proprio veniva studiata dai filosofi arabi, sulla
Repubblica di Platone). E' inutile sottolineare ancora che gli ultimi
commentatori greci furono considerati guide appropriate allo studio dei testi
classici e che non ci fu alcun tentativo ad un approccio nuovo ed originale.
Non ci furono scuole propriamente dette o organizzate come esistevano in Grecia
sin dai tempi di Platone ed Aristotele, nè ci fu qualcosa di paragonabile alle
università medievali di Parigi o di Oxford, ma ci fu una tradizione continua
dello studio della filosofia in tutto il mondo islamico a partire dal IX secolo
" (Britannica, 1962, II: 192).
Questa mancanza di originalità creativa dipese in larga misura dal fatto
che la loro fase di apprendimento si svolse quando erano diventati una potenza
matura. Essi, in effetti, nacquero come potenza politica-religiosa prima di
diventare civiltà. Se la loro fase di apprendimento fosse iniziata prima
avrebbero avuto un maggior periodo di assimilazione (il ritiro di Toynbee) e
quindi una crescita più lenta, ma più in profondità.
Ogni popolo, prima di arrivare al pensiero creativo, capace di
raggiungere un nuovo livello di struttura mentale, deve passare attraverso un
processo culturale che prevede, come già detto, quattro fasi: la prima di
apprendimento di tutte le conoscenze del passato, la seconda di accomodamento
di questi dati, la terza di imitazione creatrice, infine, la quarta di pensiero
originale o di produzione di un nuovo paradigma culturale. E queste fasi
possono essere percorse in via filogenetica o ontogenetica. In via ontogenetica
si ripercorrono nell'arco dell'esistenza umana, se si verificano tre fattori:
1) che l'umanità abbia acquisito in via filogenetica quei livelli di struttura
mentale; 2) che la società si sia data un'organizzazione che inglobi ed
utilizzi nel suo vivere quotidiano tutte le conoscenze che si siano prodotte
fino a quel momento storico in modo che esse diventino un abito mentale dell'uomo;
3) che il sistema educativo della società sappia trasmettere il sapere tenendo
conto delle fasce evolutive della psicologia umana, cioè tenendo conto di
quello che l'essere umano può capire ed assimilare nelle varie fasce d'età che
attraversa nella sua esistenza. In via filogenetica, il processo non è di
ricapitolazione (ontogenesi), ma di produzione e questa si verifica non
nell'individuo, ma nella società. E' la società, nel suo insieme, che percorre
le prima tre fasi ed è la società che produce, se la produrrà mai, la quarta
nella sua maturità. In via filogenetica queste fasi non possono essere percorse
nell'arco di una generazione.Esse richiedono secoli Ai greci ne accorsero otto Agli europei ne occorreranno sei, se
non si considerano i quattro secoli del sonno della ragione (VI-X secolo). solo
alla fine del processo si può produrre in proprio.
L'Islam non percorse il processo per intero e non produsse mai in
proprio perchè la sua civiltà incominciò a decadere proprio quando si erano concluse (fine del IX) la fasi di
apprendimento e di assimilazione (Garraty-Gay, 1973, I: 284) e si stava
sviluppando quella dell'imitazione creatrice (X-XI secolo).
In sostanza, essi non fecero alcun progresso nei livelli si struttura
mentale perchè non acquisirono mai quella capacità di sintesi sistematica che
possedevano i greci. " Essi si soffermarono troppo sulla politica, la
guerra e la retorica verbale; essi raramente ricercarono le cause sociali,
economiche e psicologiche degli eventi; in tutta la loro produzione noi non
troviamo una sintesi ordinata e troviamo una congeria non coordinata di parti,
nozioni, episodi e personalità. Essi raramente si elevarono all'esame cosciente
delle fonti e si adagiarono devotamente alla catena della tradizione "
(Durant, 1950, IV: 239).
Il loro compito,tuttavia, fu quello di unificare tutte le conoscenze
prodotte nei quattro angoli della terra (India, Cina, Grecia, ecc.) sotto
un'unica bandiera (Lewis, 1982: 221) e di produrre gli strumenti per studiare
queste conoscenze (dizionari, dizionari biografici, antologie, enciclopedie,
ecc.), di tradurre le opere nella loro lingua, di applicare quelle conoscenze,
di commentarle e, infine, di renderle pronte per esser assimilate da una
mentalità più sintetica, che sarebbe stata capace di dare un diverso ordine ai
dati della conoscenza prendendo strade
mai battute che avrebbero condotto alla
produzione di un nuovo paradigma culturale, e questi dovevano essere gli
italiani del XIV-XVII secolo, che inventarono, con Galileo, il metodo
sperimentale , il vero superamento del paradigma culturale classico.
L'Europa, contrariamente a quello che accadde nell'Islam, non conobbe declino perchè essa non era
un'unità politica, ma era suddivisa in tante piccole nazioni, le quali si
alternarono alla guida del progresso culturale e scientifico di questa più
ampia unità geografica (Gimpel, 1977: 240). Questo fu il peccato dell'Islam:
all'unità geografica corrispondeva un'unità politica. Al decadere della seconda,
decadde anche l'impulso verso il progresso delle conoscenze e della scienza. In
Europa, che era una realtà di tante unità politiche separate e distinte e in
lotta perenne tra di loro (una sorte di competizione emulativa), questo non
accadde perchè la fiaccola del progresso culturale e scientifico passava, di
volta in volta, alla nazione che era all'avanguardia.
La prima a dare il suo contributo, dopo le invasioni barbariche, fu la Francia di Carlomagno, che
chiamò a raccolta e divenne il polo di attrazione di tutti gli uomini di
cultura dell'epoca e che, con la sua politica di istituire una scuola in ogni
cattedrale e in ogni monastero, pose la basi della futura rinascita del XII
secolo. Dalla Francia la leadership passò alla Germania degli Ottoni, anch'essi
imperatori del sacro romano impero, per ritornare, nel XII-XIII secolo e prima
metà del XIV, all' Inghilterra e di
nuovo alla Francia, dove i centri culturali voluti da Carlomagno erano
cresciuti ed erano diventati fucine di intelletti, per trasmigrare, infine,
nella seconda metà del XIV secolo, nell'Italia dei Comuni (De Wulf, 1944: 27),
che, con le sue fiorenti città e la rinascita degli studi di diritto e di
medicina, era diventata la nazione in cui la cultura era uscita finalmente dai
monasteri per diventare appannaggio
dell' individuo laico di talento. Nel XVII secolo rivarcherà ancora i confini
italiani per dirigersi nuovamente, attraverso i Paesi Bassi, verso l'Inghilterra. E da quest'ultima verrà
operata la grande rivoluzione che sconvolgerà la struttura dell'organizzazione
sociale e produttiva che era stata in
auge sin dalla notte dei tempi: Il mondo basato sull'economia della terra
cesserà di esistere e nascerà quello basato sull'economia dell'industria, in cui il mutamento non sarà più misurato in millenni ( come
nelle civiltà dell'Antico Oriente) o in secoli (come nella Grecia Classica), ma
in decenni ad edificazione della potenza dell'intelligenza dell'uomo.
Gli arabi ebbero una qualche originalità (Wolff, 1973:137) solo
nell'ottica e nella chimica, " in quest'ultimo caso come risultato
accidentale delle ricerche di alchimia " (Russel, 1966,II: 560). Nella
matematica gli arabi utilizzarono, e trasmisero all'Europa, il sistema "
dell'attuale notazione numerica... nella quale il valore delle cifre dipende
dalla loro posizione, e che è in realtà di origine indiana " (Singer,
1961: 143). Questa nuova e rivoluzionaria, per quei tempi,notazione posizionale
decimale doveva diventare uno degli
elementi essenziali della capacità sintetica nella rappresentazione del
pensiero. Il valore posizionale dei numeri era stato adottato, per prima, nella
civiltà dei sumeri. Ma il loro sistema era sessagesimale. Gli arabi
introdussero quello decimale di origine indiana.
" La scienza araba, come tutte le scienze medievali, fu spesso
intrisa di occultismo; eccetto che nell'ottica, questa scienza fece piuttosto
delle sintesi dei risultati cumulativi che una ricerca originale o sistematica;
nello stesso tempo, comunque, essa sviluppò nell'alchimia quel metodo
sperimentale che è il più grande orgoglio e il più grande strumento
dell'intelligenza moderna. Quando Ruggero bacone proclamò quel metodo
all'Europa, cinque secoli dopo Giabir, egli era debitore della sua
illuminazione ai Mori di Spagna, la cui luce era venuta dai mussulmani dell'est
" ( Durant, 1950, IV: 249).
Gli arabi, anche se non raggiunsero mai un nuovo livello di struttura
mentale a quello maturato dai greci, avevano iniziato la loro storia, nella
formazione del pensiero, con una forte capacità di produzione dialettica. I
risultati venivano discussi, criticati, confutati e si avanzavano nuove
proposte e nuovi modelli. Essi, però, non erano mossi, come i greci, dal
desiderio della conoscenza per amore la conoscenza o dal desiderio di dare solo
una spiegazione razionale della natura, ma erano mossi dall'obiettivo ben
individuato di stabilire, attraverso le conoscenze acquisite, il loro dominio
concreto sulla natura stessa (Wolff, 1973: 137): ecco perchè promossero le
scienze. Volevano realizzare questo ambizioso obiettivo.
Questo stesso obiettivo lo ritroveremo, con qualche secolo di ritardo,
nel basso medioevo cristiano europeo. Ma nell'alto medioevo, mentre nel mondo
arabo uomini come Giabir e Rhazes analizzavano la natura alla ricerca dei suoi
segreti, il pensiero cristiano era completamente invischiato nelle questioni di
fede, i cui elementi erano: Dio, l'anima, la creazione del mondo, la natura di
Dio, quella di Cristo, il peccato originale, il libero arbitrio, la
predestinazione, la trinità, la verginità di Maria (per cui la verginità
divenne un valore fondamentale), la resurrezione della carne, ecc.
La natura, nel mondo Occidentale, non era vista nè razionalmente, come i
greci, nè utilitaristicamente, come gli arabi, ma era considerata come l'opera
di Dio ad edificazione del credente e a verifica della Sacra Scrittura. Nei due
mondi, quello cristiano Occidentale e quello arabo. esistevano due tipi di
uomini. Nel primo, l'uomo era dimezzato, nanizzato, senza autonomia
concettuale; nel secondo, l'uomo aveva una propria statura, non da gigante, ma
intera, e un'indipendenza di giudizio con la quale indagò sulla natura nel
tentativo di piegarla ai propri voleri. Nel mondo cristiano alto medievale, anche
se la natura poteva essere sfruttata dall'uomo (Whyte Lynn, 1952: 56), solo il
santo, con i miracoli, poteva piegarla al suo volere. Ma egli lo faceva con
l'autorità conferitagli dal suo Creatore. Il santo, infatti, quale
intermediario tra Dio e gli uomini, era " un uomo potente " (Brown,
1974: 80). Egli poteva far operare la natura in modo differente perchè, essendo
la natura opera del Creatore, conosceva l'esatto meccanismo del suo
funzionamento e la natura era obbediente. Anche nel mondo classico greco, i prodotti
dell'uomo erano i soli che potevano
essere manipolati proprio perchè era il loro creatore che li manipolava. Nel
mondo classico, infatti, la natura non solo era più forte dell'uomo, ma era
anche intoccabile. Quando gli abitanti di Cnido chiesero all'oracolo di Delfi
se potevano tagliare l'istmo, questi rispose che se Giove avesse voluto ne
avrebbe fatto egli stesso un'isola (Cipolla, 1774: 230).
Nel mondo classico solo il dio poteva conoscere, alterare, fermare,
deviare il corso della natura. All'uomo era negato. E per questo motivo Socrate
spostò, bloccando sul nascere qualsiasi sviluppo della scienza, il problema
della conoscenza dalla natura, come avevano fatto i filosofi naturisti del VI
secolo, all'uomo. Per Socrate la natura era inconoscibile e l'uomo nulla poteva
su di essa. Solo il suo creatore poteva conoscerla e renderla obbediente ai
suoi comandi. Nel mondo cristiano, con il sorgere della figura del santo,
questo potere fu attribuito anche a questo intermediario che agiva con
l'autorità del Creatore.
" Il santo spodestò definitivamente l'animismo che aveva ancora una
forte presa sul sentimento religioso della gente, la nostra razza confermò il
suo monopolio sullo spirito, e l'uomo acquistò la libertà di sfruttare la
natura a suo piacimento. Il culto del santo eliminò l'animismo e pose le
fondamenta della concezione naturalistica (ma non necessariamente irreligiosa)
del mondo fisico, che è essenziale ad una tecnologia altamente sviluppata
" ( Whyte Lynn, 1963: 283). Da questa idea, a passare a quella che anche
l'uomo poteva arrogarsi questo diritto-potere era solo una questione di tempo.
E, in effetti, l'uomo nuovo del basso medioevo, a partire dal XII secolo,
incomincerà ad osare, ma prima di farlo, nella pienezza delle sue possibilità,
dovrà equipaggiarsi nella struttura mentale, apprendendo tutto quello che si
era prodotto fino a quel momento, ad incominciare dagli arabi, che svolgeranno
un grande ruolo nella sua formazione. Allora l'idea di natura assumerà un altro
significato e all'uomo sarà data la possibilità di andare alla ricerca delle
leggi fisiche che ne regolano il funzionamento, ma solo a fini conoscitivi,
cioè solo per conoscere il meccanismo attraverso il quale il Creatore aveva
fissato per sempre il corso del mondo e dell'universo fisico. Con questa nuova
mentalità, ricercare la conoscenza del mondo fisico sarà leggere l'opera di
Dio, a sua maggior gloria e ad edificazione del credente. Ma, per maturare
l'idea successiva di assoggettare la natura all'uomo, bisognerà aspettare il
XVII secolo con Francesco Bacone e Cartesio. Infatti, " mentre...gli
scienziati del primo Rinascimento si porranno come obiettivo la conoscenza
della natura, Francesco bacone e Cartesio oseranno suggerire il dominio su di
essa e sogneranno la conquista dell'intero mondo naturale da parte dell'uomo.
Per Bacone l'obiettivo della scienza non sarà la semplice gratificazione
speculativa, ma sarà l'instaurazione del regno dell'uomo sulla natura " (
Kline, 1964: 104).
In occidente, l'unico fermento culturale ed intellettuale di un certo
rilievo, prima dell'anno mille, se si eccettua la disputa sulla
transustanziazione tra Radberto e Duns Scoto Eurigenia, l'unico vero pensatore
razionale prima dell'anno mille (Kneale-Kneale,1971 199), fu la rinascenza
carolingia, ma essa subì un arretramento con le nuove ed ultime invasioni
barbariche del IX secolo (normanni, ungari). Questo spiega perchè non ci fu un
avanzamento nella cultura prima dell'XI secolo. Fino al mille " la storia conobbe la sua mezzanotte...
quando l'uomo aveva perso anche la memoria delle arti e della scienza. L'ultimo
crepuscolo del paganesimo era sparito per sempre e, tuttavia, il nuovo giorno
non era ancora apparso. Ciò che era rimasto della cultura nel mondo era posseduto
dagli arabi, e un [futuro] Papa, desideroso di apprendere, studiò in incognito
alla loro università e divenne la meraviglia del mondo " (Dantzic, 1930:
83).
Dopo il mille si ebbe una lenta, ma graduale ripresa dell'attività
intellettuale. L'uomo,gradualmente,costruisce la sua emancipazione dal divino,
dopo un totale abbandono. Nè più nè meno di quello che era accaduto nella
Grecia pre classica, anche se ad un altro livello e in un altro contesto
culturale. Era la storia che si ripeteva. Se fino a quest'epoca della nostra
era tutto avveniva per volontà divina e l'uomo era solo lo strumento attraverso
il quale questa volontà si estrinsecava (anche gli eroi di Omero agivano per
volontà degli dei), da quest'epoca in poi, l'uomo incomincia a riappropriarsi
delle sue azioni e del pensiero che in esse si produceva. Era un ripetersi,
mutatis mutandis, dell'esperienza che avevano fatto i greci, che, da strumenti
degli dei, si emanciparono lentamente e per gradi fino a riappropriarsi del
loro pensiero e delle loro azioni. Dal XII secolo in poi, l'uomo ricomincerà a
diventare un essere pensante, dotato di una propria volontà, anche se ancora
assecondato dalla Provvidenza divina. Ma questa Provvidenza era destinata a
sparire, come era sparita la presenza degli dei nella Grecia classica.
Il primo uomo nuovo che si presenta sulla scena dell'XI secolo è un
frate che era stato, per un certo periodo, a contatto con la cultura araba in
Spagna (Beaujouan, 1963: 473): Gerberto, che salì al pontificato col nome di
Silvestro II. Ma è un uomo che si affaccia timidamente su una realtà che è più
grande di lui. Il contatto con gli arabi aveva aperto i suoi orizzonti mentali
ed aveva enormemente accresciuto la sua esperienza. Egli era senz'altro l'uomo
più colto del mondo Occidentale ( Taylor, 1911: 286), anche se " le sue
conoscenze scientifiche erano patetiche " (White Lynn, 1978: 84).
Tuttavia, col suo abbaco, che aveva portato dalla Spagna, egli aprì una nuova
strada nello studio della matematica: invece di dedicarsi alla geometria, sulla
scia dei greci, si dedicò al calcolo. Egli apparteneva ad un mondo che aveva
abbandonato il pensiero razionale per concentrare tutta la sua attenzione sulla
fede, ma era stato a contatto con una cultura, quella araba, che non faceva
ricorso alla divinità per la spiegazione dei fenomeni, ma coglieva nessi e rapporti tra i fenomeni naturali
attraverso la ragione (Gregory, 1979: 279). Fede e ragione, nell'Occidente
cristiano, erano difficilmente conciliabile all'epoca di Gerberto, ma egli si
avviò su questa strada, anche se con risultati non troppo brillanti. Tuttavia,
egli aveva aperta una strada che sarà percorsa da altri, con altri mezzi
intellettuali e con diversi risultati. Gerberto, in effetti, non possedeva la
struttura mentale idonea per essere in grado di assimilare, per esempio, i
concetti della scienza di un Avicenna (Wolff, 1973: 138), ma, a quell'epoca
(fine X e inizio XI secolo) nessuna uomo, erudita o studioso del mondo
cristiano Occidentale, era in grado di assimilarla. Il pensiero di quest'uomo è
ancora 'centrato' , incapace di cogliere nessi e relazioni. Per essere in grado
di assimilarla doveva prima crescere nel suo livello di struttura mentale
(Wolff; 1973: 138), riappropriandosi delle categorie mentali che non aveva
coltivato nel lungo periodo precedente, a cominciare dalla logica e dalla
dialettica.
La dialettica ritorna nella seconda metà dell'XI secolo con Berengario
di Tours e Roscellino di Compiegne (Britannica, 1962, XXII: 863), i quali
rinunciarono, nelle loro dispute, alle citazioni a sostegno dell'autorità degli
antichi, per seguire le vie della ragione, o della dialettica, come la chiama
Berengario, che è la sola che ci fa apparire ad immagine e somiglianza di Dio.
Berengario usò la dialettica sul problema dell'Eucarestia. Roscellino, il primo
dei nominalisti (Haskins, 1972: 31), sull'emergente problema degli universali, una disputa che doveva
coinvongere tutti i pensatori dell'epoca e che doveva dare un grosso contributo
all'affinamento delle capacità logiche dell'uomo.
A partire da quest'epoca, lo studio della logica oscura quello della
grammatica e della letteratura che erano prevalse fino ad allora (Haskins,
1972: 297). " Lo studio della logica serviva per sviluppare una chiarezza
di pensiero e un corretto uso della ragione; soltanto quando le regole della
logica divennero un abito mentale di tutti i pensatori europei lo studio della
logica formale poté essere abbandonato
" (Strayer, 1955: 128). L'uso della dialettica trova una forte opposizione
nel clero conservatore. Pier Damiani ne condanna " l'applicazione nel
campo della teologia " (Liebeschutz 1967: 611), come condanna la cultura
in genere e la scienza in particolare, che sono opere del demonio.
Le scuole di logica e di dialettica, che si aprivano nelle cattedrali,
seconda la tradizione carolingia, affrontavano tutta la problematica cristiana
e venivano discussi tutti gli articoli della fede: l'Eucarestia, la verginità
di Maria, l'anima, ecc. E molto spesso tra le scuole si accendevano delle
dispute sui singoli argomenti. Il primo argomento che suscitò una vivace
polemica, dopo quella già citata tra Radberto e Duns Scoto Eurigenia sulla
transustanziazione, nel X secolo, fu quella che vide contrapposti Lanfranco di
Bec e Berengario di Tour sulla Eucarestia. La seconda, e molto più importante (
Carrè, 1946), fu quella sugli 'universali', i cui iniziatori furono Roscellino
di Compiegne e Anselmo di Bec. In sostanza, però, quest'ultima disputa, che
vide coinvolti tutti i pensatori dell'epoca, non era altro che la prova
tangibile e concreta del risveglio della ragione dopo il lungo sonno alto
medievale. " Il risultato del rinato studio della logica fu la formazione
di un piccolo gruppo di intellettuali nell'Europa Occidentale, il cui credo era
la fede profonda nel valore dell'intelletto che si era impossessato dell'arte
della dialettica (Stiefel, 1977: 349).
La tradizione antica, iniziata con Platone con la teoria delle idee, che
nel medioevo divennero 'universali', voleva e postulava la reale esistenza di
queste astrazioni. In effetti, il pensiero greco aveva sempre sostenuto che se
penso una cosa vuol dire che questa esiste, altrimenti non avrei potuto
pensarla. Il concetto di classe, per esempio, per Aristotele era vero ed esistente al di fuori e al
di sopra dei singoli appartenenti alla classe stessa. La classe non era intesa
come un espediente dell'intelligenza dell'uomo per esprimere in una visione
sintetica una pluralità di cose o soggetti della stessa natura. Ma per i greci,
che operavano a livello operatorio concreto, una astrazione al di fuori della
realtà concreta non era pensabile, perciò gli 'universali' erano realmente
esistenti. Per la chiesa cattolica, che aveva fatta propria questa dottrina,
era importante affermare la propria reale esistenza, come chiesa, senza alcun
riferimento ai membri che la componevano. Così, essa, proprio perchè aveva
un'esistenza propria reale, era la sposa di Cristo. I nominalisti, invece,
sostenevano che solo le singoli unità
erano realmente esistenti. Gli 'universali' erano delle astrazioni
dell'intelligenza dell'uomo per comodità organizzative del pensiero.Così, non
esisteva l'uomo, ma gli uomini; non esisteva la bellezza, ma l'uomo bello; non
esisteva la crudeltà, ma l'uomo crudele. Questa disputa, anche se non era la
prima che sorgeva in Occidente, aveva ridato all'uomo il gusto di pensare con
la propria testa ed avere opinioni proprie, per quanto sbagliate esse potessero
essere (Hall-Hall, 1979: 107).
Era il pensiero che incominciava ad essere 'decentrato'. Non tutto
avveniva per volontà di Dio, ma incominciavano ad essere avanzate delle cause
naturali. E la volontà dell'uomo incominciava ad essere tenuta in
considerazione nella spiegazione degli eventi ( Stiefel, 1977: 349). La natura
stessa incominciava, sia pur timidamente, a diventare impersonale, proprio come
nell'antica Grecia da personalizzata, nel mito delle civiltà dell'Antico
Oriente, divenne, mutatis mutandis, impersonale. Si potrebbe dire che gli
intellettuali del XII secolo fecero la stessa rivoluzione che fecero i
naturalisti greci del VI secolo a.C. rispetto alle civiltà dell' Antico
Oriente: dove c'era la fede (mito), ci misero la ragione e con questa si misero
ad interpretare il mondo fisico. La riscoperta della ragione cosciente, nel XII
secolo, porta allo stesso risultato: non è la fede che spiega e dà significato
ai fenomeni, ma è la razionalità che ne ricerca le cause fisiche (Stiefel, 1977
348). Quello che prima veniva spiegato con l'interagire delle forze del bene
(Dio) e del male (diavolo), incomincia, anche se molto timidamente, ad avere
una spiegazione razionale che supera il bene e il male per affermare, nel
tempo, l'impersonalità della natura e dei fenomeni. " L'intellettuale del
XII secolo vide fuoco, pioggia e fulmini dove i suoi predecessori videro
l'intervento miracoloso di Dio e dei Santi, e invece del demonio essi videro
cavallette, vento e sfortuna. I miracoli incominciarono a perdere di
credibilità man mano che si ricercavano cause fisiche con progressivo
rigore" (Radding, 1979: 966).
Ma con Abelardo, il primo che usò tutta la potenza della logica e della
dialettica (Copleston, 1976,II: 149), siamo agli inizi di questa lotta tra fede
e ragione ( Durant, 1950, IV: 938), che durerà per due secoli, per terminare
con il trionfo di quest'ultima. Il conflitto rimaneva ancora ancorato alla
fede, ma è una fede non più accettata acriticamente in base alla autorità delle
scritture e dei Padri della chiesa. Essa viene sottoposta al setaccio della
ragione con i potenti strumenti della logica, che prende in considerazione
tutte le possibilità nell'esame del testo o del problema. E le proprie opinioni
venivano difese con gli altrettanto potenti strumenti della dialettica.
Abelardo " non era uno scettico; egli credeva in tutti gli
insegnamenti della chiesa, ma li voleva giustificare con la ragione e, ciò che
era peggio, egli era convinto che poteva raggiungere nuove verità di fede per
mezzo della logica " (Strayer-Munro, 1942: 256). Abelardo non è un
fenomeno sorto dal nulla. Egli non avrebbe mai potuto raggiungere, in un
periodo così breve, questo livello di struttura mentale, che tiene conto e
prende in considerazione tutte le possibilità, se le categorie mentali di cui
faceva uso, in particolar modo la logica e la dialettica, non fossero state
preesistenti nel pensiero immediatamente precedente. " Francamente, l'uomo
dell'Europa medievale fu in grado di andare così lontano e tanto in fretta solo
perchè egli poteva costruire sulle fondamenta della civiltà greco-romana -
Aristotele, per esempio, fornirà belle e pronte le categorie dell'analisi
logica che altrimenti si sarebbero dovute creare ex novo " (Radding, 1978:
597 ). I greci, per elaborare queste categorie, e portarle alla maturità, impiegarono
quattro secoli, dal VII al IV secolo a.C. Ad Abelardo, ed ai suoi immediati
predecessori, fu sufficiente mezzo secolo.
Il ritorno della logica e della dialettica, nella loro antica potenza, è
la riappropriazione di quello che era già preesistente, ma non veniva
utilizzato adeguatamente. Comunque, il pensiero razionale parte dalla capacità
di dare definizioni e così fecero gli uomini nuovi di quest'epoca, proprio come
avevano fatto i greci prima di loro. " Senza l'eredità del pensiero classico,
la storia della rinascita del XII secolo sarebbe stata molto differente "
(La Penna,
1981: 590)
Con Abelardo è iniziata la riflessione logica che andava al di là del
significato letterale delle scritture per cogliere la reale intenzione dell'autore
( Raddind, 1978: 592 ). " La regola che applicava nel suo metodo Sic et
Non era il dubbio sistematico, l'analisi del significato delle parole e la
proprietà del loro uso; e l'argomento delle sezioni migliori dei suoi
commentari era il vero valore delle parole, la loro funzione nella frase e il
processo psicologico che connetteva le cose e le parole" (Britannica,
1962: XVII: 690). Ecco perchè questa logica sarà chiamata 'terministica'.
" Alla sua base c'era la convinzione che le strutture linguistiche erano
delle creazioni umane che venivano usate per pensare e comunicare idee e che il
significato delle frasi e delle proposizioni dipendeva da come i termini
venivano usati in quelle proposizioni " (Courtenay, 1987: 7).
La Riflessione
logica non era una novità nella storia dell'uomo. Essa fu inventata dai greci.
L'uomo, nell'alto medioevo, non aveva le capacità intellettuali per usarla in
tutta la sua potenza. Quest'uomo non riusciva ad andare al di là del
significato letterale della scrittura. In effetti, " la principale
caratteristica dell'epoca era l'incapacità di andare al di là delle apparenze
esterne o di pensare in termini astratti " (Fichtenau, 1986: 1171). Ma,
con Abelardo, la riflessione logica prese una direzione che non proveniva da
Aristotele, ma da Boezio e da Porfirio, i quali " intesero che le dieci
categorie di Aristotele, che classificano i particolari attributi di una
sostanza, significavano termini e non cose, con il risultato che la logica fu
considerata da alcuni la scienza delle parole " (Leff, 1959: 105).
Prima di Abelardo, l'uomo era ancora nella fase della giustificazione,
proprio come lo erano le civiltà dell'Antico Oriente. Con Abelardo, l'uomo
rientrò nella fase della spiegazione propria del mondo razionale dei greci.
Solo che questa volta le tappe, già preesistenti nello spirito umano, venivano
ripercorse in poche generazioni perchè ontogeneticamente latenti all'interno
del paradigma culturale.
L'uomo del XII secolo non costruiva, ma ricostruiva; non scopriva, ma
riscopriva; non inventava, ma reinventava, perchè tutte le categorie mentali
erano esistenti e l'umanità aveva già attraversato quelle fasi. Bisognava
riappropriarsene, ma non era facile. Era possibile, dopo il lungo sonno della
ragione durato più di cinque secoli (Radding, 1978: 590 ), solo attraverso la riscoperta (Bury, 1920: 30), la
ricostruzione, come se fosse qualcosa di nuovo ( e per loro lo era anche se
bello e pronto ) e così egli fece. Ma tutto questo significava solo riprendere
il cammino per raggiungere le cime che avevano raggiunto le civiltà classiche.
Non era facile, perchè, pur avendo tutto a disposizione, nei livelli di
struttura mentale non è possibile fare salti. Bisognava ripercorrere tutte le
fasi ed egli le ripercorreva filogeneticamente e non ontogeneticamente, in
quanto i dati della conoscenza non erano stati integrati nella organizzazione
sociale, dando a ciascuno di essi la
possibilità di essere assimilato ontogeneticamente. Ecco perchè, ripartendo dal
XII secolo, per raggiungere il livello di struttura mentale dei greci del V-IV
secolo a.C. ci vollero tre secoli. E, infatti, si può dire che l'uomo
rinascimentale raggiungerà lo stesso livello di struttura mentale dei greci,
mutatis mutandis, solo sul finire del XV secolo. Col XVI secolo incomincerà un
nuovo capitolo dell'intelligenza dell'uomo, che costruirà qualcosa che non era
mai esistita nel passato e raggiungerà un nuovo livello di struttura mentale:
l'operatorio formale, quello in cui ci troviamo nel presente.
Una volta scoperta, con Abelardo, la
propria abilità a sottoporre a rigorosa critica il pensiero degli intoccabili (
gli antichi ), era facile scoprire che forse tanto intoccabili non erano e che
il loro pensiero poteva non solo essere migliorato, ma anche confutato in
qualche caso ( De Ruggero, 1973: 453-54). Era la riscoperta della potenza
dell'intelletto umano: l'uomo si riappropriava dell'altra metà e cessava di
essere dimezzato per riassumere, dopo otto secoli, tutta intera la sua statura:
era ridivenuto capace di un proprio pensiero e poteva finalmente camminare
sulle proprie gambe e non su quelle degli altri.