Capitolo
VI
DEMOCRAZIA
E DITTATURA
1)- LA DEMOCRAZIA DIRETTA
E DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
Il nome astratto
"democrazia" è uno dei termini più antichi del vocabolario politico.
Essa deriva dal greco Democrazia ed è composto da demos (popolo) e Kratos
(autorità). Furono i greci, infatti, e più precisamente gli Ateniesi, a fare il
primo esperimento di governo democratico, che raggiunse il suo pieno sviluppo
tra il V e il IV secolo a.C.
Tuttavia il concetto che i greci avevano della
democrazia è del tutto diverso da quello moderno. Per essi, infatti, governo
democratico voleva partecipazione diretta alla formazione delle leggi, partecipazione
diretta alla direzione politica ed amministrativa dello Stato e alla amministrazione
della giustizia, mediante un sistema di rotazione delle cariche, per cui ogni cittadino di
tempo in tempo occupava le massime cariche dello Stato.
Tutto ciò era possibile, in quanto la popolazione della
città-Stato di Atene ammontava a poche migliaia di abitanti, e non era
difficile riunirsi nella piazza del mercato per discutere sugli affari dello
Stato. Inoltre questo diritto era riservato soltanto ai cittadini che formavano
una classe ristretta, chiusa ed inaccessibile. Ma oggigiorno che la popolazione
di ogni Stato ammonta a milioni di individui-cittadini, sparsi su un territorio
almeno venti volte più grande di quello di Atene, non sarebbe possibile adottare
il metodo della democrazia diretta.
L'ampliamento dei confini dello Stato, la
dilatazione delle sue funzioni e la complessità della sua organizzazione hanno
fatto sorgere un nuovo tipo di democrazia, dove l'individuo, il cittadino,
l'uomo delle strada ha perso il contatto diretto con lo Stato e la sua
partecipazione alla vita dello Stato avviene tramite dei rappresentanti che
egli di tempo in tempo elegge per rappresentarlo nei massimi organi dello
Stato. Di quì il nome di democrazia rappresentativa. «Questo genere di democrazia
è completamente nuovo nel mondo. Il suo sorgere in effetti data da circa la metà del XIX secolo»(1),
cioè da quando le nazioni più avanzate cominciarono ad estendere il diritto
alla partecipazione nella determinazione dei maggiori problemi politici della
nazione, mediante l'esercizio del voto, a quelle classi che fino allora ne
erano state escluse. Il suffragio universale stesso, il diritto riconosciuto
ad ogni cittadino maggiorenne d'essere elettore, senza il quale non vi può
essere democrazia, è una conquista recentissima.
In questo tipo di democrazia, l'individuo
resta isolato e privo di qualsiasi influenza se non si associa ad altri
individui che condividono le sue stesse idee. che hanno i suoi stessi bisogni,
che hanno le sue stesse aspirazioni. Di quì il sorgere dei partiti politici,
dei sindacati e delle associazioni in genere. Solo tramite queste
organizzazioni l'individuo ritorna ad acquistare quel peso che aveva nella
democrazia diretta. Ma il diritto di voto, da solo, non basta per qualificare
democratico uno Stato. Perché ci sia democrazia ci devono essere anche ideali,
fini e valori, comuni a tutta la comunità. I valori sui quali si basa, si articola
e si sviluppa la democrazia sono popolare, la libertà e l'uguaglianza.
2. - LA SOVRANITÀ POPOLARE
E LA REGOLA DELLA
MAGGIORANZA
Già
nel capitolo III abbiamo messo in evidenza che è inesatto parlare di sovranità
popolare, perché la sovranità non risiede nella massa disorganizzata del
popolo, ma solo in quella parte debitamente costituita in elettorato, che ha
acquistato e gode dei diritti politici (2), cioè il diritto a essere elettori
(elettorato attivo) e il diritto a essere eletti (elettorato passivo). Per fare
un esempio, nel 1983 la sovranità popolare in Italia risiedeva in un corpo
elettorale di circa 35 milioni di cittadini su una popolazione complessiva di
circa 56 milioni di abitanti.
Quando si parla di sovranità dell'elettorato si vuole semplicementr
intendere che la volontà dell'elettorato, espressa nelle forme e nei limiti di
legge, deve prevalere. Ma l'elettorato nell'esprimersi non è uniforme. Ci sono
alcuni che vogliono una cosa, altri che
ne vogliono un'altra.
Allora come si
fa a scoprire
quale sia l'effettiva
volontà
(1) CORRY and ABRAHAM, op. cit., p. 48.
(2) il godimento dei
diritti politici è un requisito essenziale. Infatti ci sono alcune categorie
di cittadini che hanno perso tale diritto. In Italia sono esclusi
dall'elettorato attivo: *li interdetti e gli inabilitati per infermità mentale;
i commercianti falliti finché dura lo
Mato di fallimento, ma
non oltre cinque anni dalla data di dichiarazione di fallimento; coloro che
sono sottoposti a misure di sicurezza, di confino e a libertà vigilata; i
condannati a pena che importa l'interdizione perpetua dai pubblici uffici;
coloro che sono sottoposti all'interdizione temporanea dai pubblici uffici per
tutto il tempo della sua durata; i condannati per alcuni reati gravi; i
condannati per alcuni reati fascisti; i tenutari dei locali di meritricio; i
concessionari delle case da gioco.
nell'elettorato? Si
contano i voti favorevoli alle varie soluzioni prospettate e si determina quale
di esse ha riportato la maggioranza dei voti. Questa maggioranza, così
ottenuta, si assume come la volontà nell'elettorato e quindi deve prevalere.
Tuttavia
la maggioranza deve accettare le regole del metodo democratico e garantire alla
minoranza
la libera espressione del proprio dissenso. Anzi tra maggioranza e minoranza
si
dovrebbe stabilire un mutuo interscambio di idee, tendente all'individuazione
di un
punto di Incontro tra le
tesi di cui sono portatrici. Nessuna maggioranza, per quanto grande essa possa
essere, può dire di essere l'unica depositaria della verità. Ci sarà sempre un
lato, un aspetto della verità che le sfugge. «Se una maggioranza entra in
discussione con una minoranza, e se la discussione è condotta in uno spirito di
dare ed avere, il risultato sarà che le idee della maggioranza saranno così
ampliate da includere alcune delle idee della minoranza che hanno dimostrato
la loro validità nel corso del dibattito» (1).
3. - LA LIBERTÀ
Il compito principale
della democrazia è quello di creare le condizioni necessarie per realizzare il
libero ed autonomo sviluppo dell'individuo. Ne consegue che, nelle società
democratiche, i diritti politici devono essere accompagnati ed integrati dai
diritti civili. Il diritto di voto, senza la libertà di accedere alle fonti di
informazione, senza la libertà di parola e di stampa, senza la libertà di
riunioni, che consentono la libera circolazione delle idee, senza la libertà di
poter scegliere tra due o più piattaforme programmatiche, si riduce ad una pura
formalità. Senza la libertà di associazione e in particolare senza la libertà
di organizzare partiti politici che abbiano a loro volta la libertà di criticare
la politica del Governo o di proporre politiche diverse o di porsi essi stessi
come alternativa al Governo, la democrazia si svuoterebbe di ogni suo contenuto
per diventare una formula di comodo dietro alla cui facciata si nasconde la più
nera dittatura. «Senza opposizione non c'è democrazia. La opposizione è allo
stesso tempo un'alternativa al Governo e la punta avanzata del malcontento
popolare. La sua funzione è quasi tanto importante quanto quella del Governo»
(2).
4. - UGUAGLIANZA
Finora abbiamo parlato
della democrazia rappresentativa senza preoccuparci di dire che attualmente se
ne distinguono due tipi: la democrazia politica o liberale e la democrazia
economica o socialista. Quello che abbiamo detto nei paragrafi precedenti è
valido per
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(1)E. BARKER: op. cit.,
p. 67.
(2) Sir IVOR JENNINGS:
Cabinet Government; Cambridge University Press, p. 16.
entrambi. La loro
differenza si fonda soprattutto sull'interpretazione che esse danno al termine
uguaglianza
5. - LA DEMOCRAZIA POLITICA
I sostenitori della
democrazia politica sostengono che l'uguaglianza deve limitarsi
all'uguaglianza davanti alla legge o all'uguaglianza politica. Volere estendere
questa uguaglianza al campo economico, essi sostengono, significherebbe
limitare la libertà dell'individuo. È vero, essi aggiungono, che una libertà
illimitata fa sì che alcuni diventino ricchissimi, mentre altri rimangono
poveri, creando così una profonda disuguaglianza sociale. Ma, intervenire
(abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione) in una tale situazione,
allo scopo di stabilire un certo grado di uguaglianza, significherebbe
soffocare lo spirito di iniziativa individuale per creare un livellamento
artificioso ed innaturale.
6 - LA DEMOCRAZIA ECONOMICA
Per i sostenitori della
democrazia economica l'uguaglianza politica e giuridica non ha nessun valore se
non è accompagnata dall'uglianza sociale ed economica, dando ad ognuno le
stesse possibilità di reddito ed abolendo ogni distinzione sociale. Finché
esiste lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo non vi può essere democrazia. Vi
sarà democrazia solo quando il controllo dei mezzi di produzione e di distribuzione
non sarà più nelle mani di una plutocrazia limitata, ma passerà nelle mani di
tutti gli interessati (salariati, consumatori, collettività locali, ecc.) che,
riunitisi in libere associazioni, concorreranno alla determinazione sia del
processo produttivo sia dei metodi di distribuzione.
Quest'ultima sarà effettuata secondo il
principio «da ciascuno secondo senza le sue capacità a ciascuno secondo i suoi
bisogni». Quando finalmente la de- la democrazia economica sarà instaurata «al
posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi
di classe subentrerà un'associazione nella quale il libero sviluppo di
ciascuno sarà la condizione per il libero sviluppo di tutti» (1).
7 - LA DEMOCRAZIA
PARTECIPATIVA
Il concetto di
uguaglianza economica nacque nel XIX secolo, glian- quando si vedevano le
tensioni sociali solo come fenomeno di natura prettamente economica,
rivendicativa.
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(1) K. MARX e F. ENGELS:
Il manifesto ciel partito comunista; Einaudi NUE, p. 158.
Negli Stati contemporanei, invece, le
tensioni sociali hanno assunto una nuova dimensione. Esse nascono soprattutto
dalla necessità-bisogno del cittadino di una maggiore partecipazione a tutto
il processo sociale: partecipazione nella direzione dell'azienda;
partecipazione al processo decisionale, amministrativo e politico (e quindi
non più democrazia rappresentativa e non solo democrazia economica, ma anche
democrazia partecipativa), in contrapposizione ad una (attuale) passività del
cittadino di fronte ad una macchina produttiva e statale (intesa nel senso di
amministrazione locale e centrale) che lo sovrasta e lo soffoca in una morsa
limitatrice di libertà.
La dittatura
1. - LE DITTATURE DI
TIPO TRADIZIONALE
Le dittature del XX
secolo possono essere raggruppate in due categorie. Nella prima possono essere
catalogate tutte quelle che hanno una grande somiglianza col tipo classico o
tradizionale, cioè a quelle dittature la cui esistenza è strettamente legata
alla persona del dittatore (1) che, nella maggior parte dei casi, è un militare
di carriera o comunque una persona che gode dell'appoggio dell'esercito. Tra
queste possono essere annoverate la
Spagna di Franco, l'Egitto di Nasser, la quasi totalità delle
repubbliche sud americane e molti paesi in via di sviluppo del continente
africano.
2. - LE DITTATURE
TOTALITARIE
Alla seconda categoria appartiene quel tipo
di dittatura, ed è quella che ci interessa qui, che non ha precedenti nella
storia. Essa è sorta all'inizio del secolo XX e la sua caratteristica
fondamentale è che essa dà vita ad una nuova forma di organizzazione statale,
dove tutto il potere politico è monopolizzato da un solo partito politico che
governa totalitariamente la nazione.
Pur
avendo dei tratti
comuni e sebbene
usino tutti gli
stessi mezzi e tecniche per
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(1) Cfr. GIOVANNI SARTORI:
Osservazioni sulla teoria dclh tlitiatzrrv: in Storia e politica, Anno III,
aprile-giugno, 1964.
conservare e rafforzare
il loro potere, quali ad esempio la propaganda, l'irregimentazione della
popolazione, ecc., le dittature appartenenti a questa categoria si
diversificano nel tema di fondo. Quelle di tipo fascista, i cui maggior esempi
sono l'Italia di Mussolini e la
Germania di Hitler, sono sorte come opposto e negazione
della democrazia: «il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo
al maggior numero abbassandolo al livello dei più»; mentre quelle di tipo
comunista, il cui maggiore esempio è
rappresentato dalla Russia, si pongono (in teoria) come finalità ultima da raggiungere
in un futuro non troppo lontano, lainstaurazione della democrazia economica
dove tutti i cittadini saranno uguali non soltanto di fronte alla legge o
politicamente, ma nella distribuzione delle ricchezze. Una volta raggiunto
questo scopo, la dittatura deve cedere il posto ad una società di uomini
liberi.
Senza dubbio il fine che si pone l'ideologia comunista è,
nella sua concezione, superiore a
quello che si poneva il fascismo, ma sarebbe erroneo concludere e sostenere
che la dittatura comunista è giustificabile in quanto si pone un fine
superiore. La dittatura, sotto qualsiasi forma essa si presenti, è condannabile
ed esecrabile in quanto nega all'individuo i suoi più elementari diritti, ma
soprattutto perché gli nega il suo bene maggiore: la libertà. Inoltre
l'esperienza storica dell'ultimo sessantennio ha largamente dimostrato che il
principio della dittatura temporanea, per raggiungere l'idealistica società
democratica del futuro, è errato nella sua concezione. Quando il soffio della
vita libera viene soffocato, si instaura un dispotismo di partito o di Stato
che diventa sempre più pesante man mano che le gerarchie al potere si
cristallizzano. La democrazia economica o socialista può essere realizzata solo
nella libertà: «II socialismo è inseparabile dalla democrazia e dalla libertà,
da tutte le libertà politiche e civili e religiose, tra loro solidali ed
indivisibili, e come esso non può essere realizzato che nella libertà e con la
democrazia, così la democrazia non può essere attuata integralmente se non col
socialismo» (1).
3. - LA DITTATURA DI TIPO
FASCISTA
A parte alcune differenze
di carattere ideologico, le dittature, fascista e nazista, possono essere
considerate sostanzialmente identiche. Entrambe ebbero origine in un periodo
travagliato della storia dei rispettivi paesi. L'Italia, uscita vittoriosa
dalla guerra 1914/18, era rimasta profondamente disillusa e scontenta delle
condizioni di pace del Trattato di Versailles. La Germania, che ne era
uscita sconfitta, si sentiva umiliata dalle condizioni di pace che i vincitori
le avevano imposto. In entrambe le nazioni il vecchio ordine sociale era stato
sconvolto e messo in discussione. I Governi erano deboli ed instabili, incapaci
di affrontare e risolvere i problemi che la nuova realtà veniva ponendo.
Fu appunto
in questo clima
di scontento, di
disillusione, di umiliazione,
di crisi
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(1) Dichiarazione dei Principi dell'unificazione
socialista; Avanti!, anno LXX, n. 172.
economiche dilaganti e di
disordine che il nazismo e il fascismo trovarono terreno fertile. Essi si
posero come campioni dell'ordine, come campioni dello Stato forte che avrebbe
posto fine al "caos" che essi stessi avevano contribuito a generare e
si autodefinirono come lo spirito rigeneratore della nazione.
Entrambi conquistarono il potere non
attraverso una rivoluzione cruenta, ma attraverso vie legali, ed entrambi
avevano premesso di agire nella legalità e nell'ambito delle istituzioni
vigenti. Ma appena giunti al potere essi intrapresero a riplasmare la società
ad immagine e somiglianza della dottrina che essi propugnavano (1), i cui
cardini erano l’anti marxismo nella sua duplice veste di comunismo e
socialismo, e la negazione completa e categorica della democrazia e del
liberalismo.
All'internazionalismo del marxismo essi
opposero la concezione nazionalistica dello Stato (2). Al principio della
proprietà pubblica dei mezzi di produzione e di distribuzione opposero il
principio della proprietà privata: «da tutte le sette socialiste siamo
irreparabilmente distinti, perché respingiamo ogni e qualsiasi
internazionalismo, ogni e qualsiasi intervento statale nelle faccende
dell'economia»(3).
La parola democrazia fu cancellata dal
vocabolario politico, perché democrazia significa «governo del popolo, per
mezzo del popolo” (4) e nte fidenti- nell'interesse
del popolo»3, mentre per essi il popolo era incapace di determinare quale
fossero i suoi veri interessi. Per essi il popolo era massa e «la massa è
gregge, e come gregge è in balia di istinti e di impulsi primordiali. È preda
di un dinamismo abulico, frammentario,
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(1) All'inizio entrambi i
movimenti (prima di essere un partito furono movimenti d'azione) mancavano di
un'ideologia. Il fascismo la maturò dopo la sua ascesa al potere. Il nazismo,
invece, quando conquistò il potere aveva già una ideologia ben definita.
(2) Cfr. il Capitolo I.
(3) B.
MUSSOLINI, citato in A. TASCA: Nascita e Avvento del Fascismo; Universale
Laterza, p. 256.
(4)
A. LINCOLN: Colleeted Works;
Rudgers University Press, New Jersey,
voi. VII, p. 18.
incoerente. È materia
insomma. La massa non ha domani. Bisogna dunque
abbattere gli altari eretti dal dèmos, Sua Santità la ;Massa» (1). Non
più quindi sovranità popolare, ma governo di pochi, anzi di uno. II fascismo
negava che «il numero, per il semplice fatto di essere numero» potesse «dirigere le società umane»;
negava «che questo numero» potesse «governare attraverso una consultazione
periodica»; affermava la «disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica
degli uomini che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed
estrinseco com'è il suffragio universale» (2).
Lo Stato fu organizzato secondo una
struttura gerarchica che, secondo la concezione nazifascista, rispecchiava
«l'idea fondamentale della natura che è aristocratica” (3) ed esige la
subordinazione del più debole al più forte, la supremazia dei pochi sui molti.
Negata la validità del suffragio universale
ed affermata la supremazia dell'èlite, si negò automaticamente la validità
della funzione dei partiti politici. Quello che si voleva dal popolo non erano
decisioni, ma disciplina: tacita e scrupolosa osservanza delle decisioni che
venivano prese ai livelli di vertice e che, attraverso la scala gerarchica,
arrivavano alla base.
Il parlamento cessò di essere un organo
legislativo e divenne un corpo consultivo privo di qualsiasi influenza. Tutto
il potere era concentrato nelle mani del Governo ed esecutivo, in cui dominava
incontrastata la volontà di una sola persona: il Duce o Fuhrer.
La sua volontà era legge e la forma
tipica di legislazione era il decreto-legge. Le libertà, tutte le libertà,
politiche e civili, vennero dichiarati "nocive" e furono abolite. Il
soggetto della organizzazione sociale cessò di essere l'individuo e al suo
posto fu messo lo Stato. Lo Stato assoluto e totalitario che organizzava e
controllava ogni aspetto della vita sociale: «per il fascista tutto è nello
Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori
dello Stato. In tal senso il fascismo è totalitario... Né individui fuori
dello Stato, né gruppi (partiti politici, associazioni, sindacati, classi)...
Lo Stato fascista ha rivendicato a sé anche il campo dell'economia, e
attraverso le istituzioni corporative, sociali, educative da lui create, il
senso dello Stato arriva alle estreme propagini e nello Stato circolano,
inquadrate nelle rispettive organizzazioni, tutte le forze politiche,
economiche, spirituali della nazione» (4).
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(1) B. MUSSOLINI, citato
in A. TASCA: op. cit., p. 396.
(2) B. MUSSOLINI, in
Enciclopedia Treccani.
(3) A. HITLER: La mia
battaglia: Bompiani, 1940, p. 16.
(4) B. MUSSOLINI: La dottrina del fascismo; in
Enciclopedia Treccani.
4. - LA DITTATURA DI
TIPO COMUNISTA: LA
DOTTRINA DI MARX.
Al contrario del fascismo e del nazismo,
che, quando iniziarono la loro ascesa al potere, mancavano di una concezione
globale del mondo, il comunismo poteva vantare una dottrina e un programma fin
dagli albori. Essa è basata sugli insegnamenti di Karl Marx.
Secondo Marx, la struttura di qualsiasi
società è determinata dai metodi di produzione economica e quindi la storia è
storia di lotte di classi, lotte fra classi sfruttate e classi sfruttatrici,
fra classi dominate e classi dominanti. Nel mondo antico le classi contrapposte
e in lotta fra di loro erano molte (si pensi alla società romana divisa in
patrizi, cavalieri, plebei e schiavi o alla società medioevale divisa in
signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni e servi della gleba),
ma via via nel corso della storia esse
sono andate sempre più riducendosi fino ad arrivare alle due grandi classi
«direttamente contrapposte della nostra epoca: borghesia e proletariato (1).
La società borghese o capitalista odierna,
come tutte le società esistite nella storia, è basata su un sistema economico
in cui alcuni lavorano e altri (i possessori dei mezzi di produzione)
s'impossessano del plusvalore da essi
creato (2), (per Marx il valore di qualsiasi merce è determinato dalla quantità
di lavoro necessaria per produrla.
Ora nella società capitalista il lavoratore
riceve di meno di quanto ha prodotto. La
differenza tra quello che ha ricevuto e quello che ha prodotto,
plusvalore, va a finire nelle tasche dei capitalisti sotto forma di profitti e
rendita).
È il lavoro del proletario che crea il
capitale e il lavoratore stesso trova lavoro solo fintanto che il suo lavoro
aumenta il capitale. Ne consegue che il capitalismo è un sistema in continua
espansione che «non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli
strumenti di produzione. I rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti
sociali. Durante il suo dominio di classe, appena secolare, la borghesia ha
creato forze produttive in massa molto maggiori e più colossali che non avessero
mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato». E sarà proprio
questa immensa capacità produttiva che provocherà il suo declino e il suo
tramonto. «Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti
sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre ed entrare, così,
in conflitto con i capitalisti di altri paesi per la connquista di nuovi e più
ampi mercati. Ed è appunto questa corsa mercati
che spinge le nazioni capitalistiche alla guerra.
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(1) «Per borghesia si intende la classe dei
moderni capitalisti, possessori dei mezzi di
produzione e compratori di lavoro salariato. Per proletariato, la
classe dei moderni salariati che, non possedendo mezzi di produzione propri, è
costretta, per vivere, a vendere il suo lavoro». Nota di F. Engels all'edizione
inglese del Manifesto del 1888.
(2) Avvertiamo il lettore che questa è una
sintesi schematica del pensiero di Marx e,come tale, deve essere accettata con
tutte le manchevolezze che essa comporta.
Inoltre «la socità borghese moderna che ha
creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia
al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui
evocate... Basti ricordare le crisi commerciali (1) che col loro periodico
ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la
società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo
una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze
produttive già create.
Nelle crisi scoppia una epidemia sociale
che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della
sovraproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta ad uno stato d:
momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio
le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria. il commercio
sembrano distrutti».
Né il capitalismo sa uscire da queste
contraddizioni. L'unico rimedio che esso sa porvi («con la distruzione coatta
di una massa di forze produttive, con la conquista di nuovi mercati e con lo
sfruttamento più intenso dei vecchi») serve solo a preparare crisi più generali
e più violente.
«A questo punto le armi che sono servite
alla borghesia per atterrare il feudalismo si rivolgono contro la borghesia
stessa. Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno
la morte: ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai
moderni, i proletari».
Per prima cosa il proletariato,
organizzatosi in partito politico, si impadronirà del potere politico, cioè
dello Stato (per Marx lo Stato borghese è il comitato d'affari della classe
borghese e lo Stato in genere è lo strumento di oppressione della classe
dominante) e si servirà di questa sua supremazia politica per abolire la
proprietà privata dei mezzi di produzione e di distribuzione e trasferire tali
mezzi «nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe
dominante» (2).
Una volta che la proprietà privata avrà
perduto il suo carattere personale e sarà concentrata in mano agli individui
associati, gli antagonismi di classe cesseranno di esistere e si stabilirà una
società senza classi. Lo Stato avrà esaurito la sua funzione di strumento di
oppressione della classe dominante e cesserà di esistere. Al suo posto subentrerà
una libera associazione di lavoratori «per lo sfruttamento comune e
pianificato delle forze produttive» (3).
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(1) Cfr. Capitolo VIII.
(2) Tutte le citazioni quì riportate sono tratte
dal Manifesto del partito comunista di Marx e Engels; Einaudi, 1962.
(3) F. ENGELS: Principi
del Comunismo; in Appendice al Manifesto; op. cit., p. 301.
Questi sono i principi che costituiscono la
spina dorsale di tutti i regimi comunisti. Ma se questi sono i principi, a cui
essi in teoria si richiamano e di cui tutte le loro costituzioni sono permeate,
nella pratica i paesi a regime comunista si sono collocati fuori dalle
previsioni dalle concezioni dei maestri del socialismo.
Per Marx ed Engels la dittatura del
proletariato voleva dire partecipazione di tutti i proletari alla direzione
politica dello Stato; nei Paesi comunisti, invece, la dittatura del
proletariato è stata trasformata nella dittatura del partito comunista, dove i
proletari non solo non partecipano alla vita politica del Paese, ma non
esercitano nessun controllo sul potere politico. È vero che in questi Paesi il
popolo gode del diritto al voto e che le elezioni si tengono regolarmente, ma
questo diritto si risolve in una pura formalità, in quanto il cittadino è
chiamato a votare per una lista unica preparata dal partito comunista.
Il partito è l'unica fonte di ogni potere.
Tuttavia il concetto di potere nei regimi comunia è un concetto collettivo, nel senso che non
c'è un solo uomo che prende le decisioni per tutti, come avveniva nel partito
nazista e fascista, ma vengono presi in seno agli organi collegiali del
partito.
Ancora, per Marx ed Engels, nella società
socialista, la proprietà dei mezzi di produzione doveva essere concentrata in
mano agli individui liberamente associati; nei regimi comunisti, invece,
«l'economia cosiddetta socialista è un'economia di Stato, nella quale i
lavoratori e laa popolazione nel suo insieme, non esercitano controllo alcuno,
e non possono, a nessun livello
di produzione, avere qualsiasi influenza sui suoi risultati e sul limite dei
sacrifici che essa comporta»» (1).
Infine, per Marx ed Engels, una volta abolita la proprietà privata e dopola temporanea dittatura del
proletariato che avrebbe provveduto aIla
liquidazione totale e completa di ogni residuo di classismo, sarebtà senza
sorta una società senza classi; nella Russia Sovietica, invece, la dittatura
temporanea dura da mezzo secolo, ma dalle ceneri della borghesia è sorta una
nuova classe «che non ha precedenti nella storia: la burocrazia o più
precisamente la burocrazia politica... Ciò non vuol dire che il nuovo partito e
la nuova classe si identifichino. Il partito, comunque, costituisce il nerbo di
questa classe e la sua base. È molto difficile, forse impossibile, definire i
contorni della nuova classe ed identificare i suoi membri. Si può dire che la
nuova classe sia formata da coloro che godono di speciali privilegi e di
preferenze economiche a causa del loro monopolio amministrativo»(2): ossia i
pochi privilegiati del partito, della burocrazia amministrativa, della polizia,
dell'esercito e, non per ultimi, dei tecnici.
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(1) A. TASCA: Politica
russa e propaganda comunista; Opere Nuove; 1957, p. 45.
(2)
MILOVAN DJILAS: The New Class (trad. italiano); Praeger Paperbooks, New York,
pp. 38-39.
Né i contrasti fra la teoria e la pratica
si fermano quì. Nella Russia, sovietica, per fare un esempio concreto, la
costituzione garantisce all'individuo tutte le libertà civili: «In conformità
con gli interessi delle classe lavoratrice e allo scopo di rafforzare il
sistema socialista, ai cittadini della U.S.S.R. è garantito per legge: a) la
libertà di parola; b) la libertà di stampa; c) la libertà di riunione, compresa
quella di tenere comizi; d) la libertà di dimostrazioni di piazza. Questi
diritti civili vengono assicurati mettendo a disposizione dei lavoratori le
tipografie, la carta, gli edifici pubblici, le piazze, i mezzi di
comunicazione, e tutto l'altro materiale necessario per l'esercizio di questi
diritti»(1) .
In realtà l'individuo si trova preso nella
potente morsa dello Stato che gli nega la più piccola possibilità di
indipendenza. È lo Stato che giudica per lui quali siano i suoi interessi e
come deve perseguirli. Ogni piccola deroga a queste direttive basta per far
dichiarare il trasgressore «nemico di classe» e come tale farlo mettere ai
margini della vita sociale e civile.
Oggi come oggi, nei Paesi a regime
comunista, non c'è socialismo (o meglio, c'è, ma è sulla carta). C'è soltanto
la dittatura di un partito monolitico che governa totalitariamente la nazione e
non lascia all'individuo il più piccolo spazio per raggiungere l'obiettivo
principale di una democrazia: il libero ed autonomo sviluppo della propria
personalità.
La proprietà collettiva dei mezzi di
produzione e di scambio non basta, da sola, ad assicurare un regime socialista,
al contrario, può permettere i sistemi peggiori di sfruttamento e di schiavitù,
se non è accompagnata da tutta una serie di garanzie democratiche e sociali in
favore dell'insieme della popolazione lavoratrice» (2).
_______________________________________________________________________
(1)Art. 125 della
Costituzione russa del 1936.
(2) A. TASCA: op. cit.,
p. 44.
SPUNTI PER LA DISCUSSIONE IN
CLASSE
1)
Alla democrazia si attribuiscono molti difetti: è lenta nel suo
processo decisionale e nell’attività legislativa; è inefficiente, ecc.
Ciononostante, rimane, secondo il pensiero di Winston Churchill, il migliore
dei governi possibili. Tu che ne pensi?
2)
La crisi della democrazia è generale è diffusa. Ma nessuna la mette
in discussione. I rimedi che si propongono sono due: 1) una maggiore diffusione
della democrazia fino a coinvolgere tutti i cittadini (vedi Consigli di
quartiere, consiglio gestionale delle USL, consigli d’istituto nelle scuole,
ecc.); 2) diminuire la partecipazione democratica ,
introducento un pizzico di autoritarismo (forte autorità centrale: limitare la
partecipazione democratica, niente consiglio di quartiere, niente consigli
delle USL, niente partecipazione alla vita della scuola, severa pianificazione,
ecc.). quale ti sembra il rimedio più valido? O ne
potrebbe esistere un terzo?
3)
La democrazia ha creato l’illusione delle aspettative crescenti:
l’individuo si aspetta sempre di più dallo Stato, ma lo Stato è in crisi
proprio perché ha dilatato troppo i suoi compiti nel campo dell’economia e del
sociale. Secondo te come si possono conciliare le aspettative crescenti dei
cittadini e una sana amministrazione dello Stato?
4)
Negli stati totalitari i conflitti sociali sono stati eliminati. Ma
sono stati eliminati perché risolti o perché lo stato ha usato e usa il suo
potere di coercizione per non farli sorgere?
5)
Gli stati totalitari non muoiono di morte naturale, ma per crisi
violente (o catastrofi), come la storia del fascismo e del nazismo insegnano.
Perché essi sono difficilmente soggette al tarlo della democrazia?
6)
La democrazia è per sua natura debole, continuamente esposta ai
pericoli del totalitarismo. Ne sai spiegare i motivi?