Capitolo II
IL
CONCETTO DI STATO
1. - GLI ATTRIBUTI DELLO
STATO
Lo Stato è la massima organizzazione
politica che l'uomo conosca. Tutti gli studiosi sono concordi nell'attribuire
allo Stato alcune proprietà essenziali: la popolazione, il territorio, il
governo, la sovranità e l'indipendenza.
2. - LA POPOLAZIONE
La popolazione di uno Stato non è composta
soltanto dalle persone viventi sul suo territorio in un dato momento storico,
ma è composta anche dalle «generazioni passate e da quelle a venire» (1), le
quali assicurano allo Stato la sua continuità storica e ne realizzano l'unità.
Gli individui che compongono la
popolazione assumono la denominazione di cittadini e «sono i membri permanenti
dello Stato»(2). Essi godono di alcuni diritti ed hanno certi doveri, di cui ci
occuperemo nel capitolo IX; qui ci interessa vedere soltanto come si diventa
cittadini di uno Stato.
3. - LA CITTADINANZA
La cittadinanza si può acquistare per
diritto di nascita o per naturalizzazione. Nell'attribuire la cittadinanza,
ogni Stato segue un diverso principio legale: il principio del diritto di
luogo (jus loci) o quello di sangue (jus sanguinis).
Il principio del jus sanguinis prescrive
che la cittadinanza è determinata dal vincolo di parentela, cioè a dire, una
persona acquista la cittadinanza dei suoi genitori senza riguardo al luogo di
nascita.
Questa norma è adottata
per lo più da quegli Stati che seguono il diritto romano. L'Italia è uno di
questi. Tuttavia vi sono dei casi in cui lo Stato italiano ammette la norma del
jus loci. Per esempio, è cittadino italiano chi è nato nello Stato, se
entrambi i genitori o sono ignoti o non hanno la cittadinanza italiana, né
quella di un altro Stato (apolidi), ovvero se il figlio non segue la
cittadinanza dei genitori stranieri secondo la legge dello Stato al quale essi
appartengono.
Il figlio di ignoti,
trovato in Italia, si presume, fino a prova contraria, nato nello Stato.
Il principio del jus loci
prescrive che la cittadinanza è determinata dal luogo di nascita, cioè una
persona acquista la cittadinanza dello Stato, sotto la cui giurisdizione essa
nasce, senza riguardo alla cittadinanza dei suoi genitori.
Questa norma è adottata principalmente dai
paesi anglosassoni e da quei paesi che hanno una carenza di popolazione. Vi
sono degli Stati che, nell'applicazione di questa norma, ammettono delle
eccezioni. Gli Stati Uniti prevedono le seguenti eccezioni: non sono cittadini
dello Stato tutti coloro che nascono su navi straniere che si trovano nelle
acque territoriali dello Stato, i figli dei diplomatici stranieri, i figli dei
capi di Stato stranieri, i figli dei nemici che occupano militarmente il
territorio dello Stato.
Sono, invece, cittadini dello Stato
tutti coloro che sono nati all'estero da genitori americani (jus sanguinis), i
quali riescano a dimostrare che la loro permanenza all'estero è solo
temporanea; tutti coloro che sono nati all'estero da genitori di cui solo uno
è cittadino americano, se il genitore che possiede la cittadinanza ha
trascorso almeno dieci anni sul suolo americano o in uno dei suoi possedimenti
prima della nascita del bambino. Quest'ultimo, tuttavia, perderà il suo diritto
alla cittadinanza se non rientrerà negli Stati Uniti prima del 23° anno di età
e non vi risiederà per cinque anni consecutivi.
Qualche volta le due norme (jus sanguinis
e jus loci) entrano in conflitto e ne risulta che una persona può essere
cittadino di due Stati o di nessuno. Avrà doppia cittadinanza se nasce da
genitori che possiedono la cittadinanza di uno Stato che riconosce la norma
del jus sanguinis ma vivono in uno Stato che riconosce la norma del jus loti e
non sono naturalizzati.
Per esempio, il figlio che nasce ad una
coppia d'italiani, espatriati negli Stati Uniti e non naturalizzati americani,
è considerato cittadino americano dagli Stati Uniti e cittadino italiano dallo
Stato italiano.
Non avrà nessuna cittadinanza se nasce in
uno Stato che riconosce la norma del jus sanguinis da genitori non
naturalizzati che hanno rinunciato o sono decaduti della cittadinanza dello
Stato di origine.
La naturalizzazione. Tutti gli Stati
moderni hanno delle leggi che contemplano la concessione della cittadinanza ai
non cittadini, che ne facciano richiesta. Essi, però, devono avere dei
requisiti che variano da Stato a Stato. In Italia, la cittadinanza può essere
concessa per naturalizzazione (1) (o per decreto del Presidente della
Repubblica) previo parere favorevole del Consiglio di Stato: 1) allo straniero,
che abbia prestato servizio per tre anni allo Stato italiano, anche se
all'estero; 2) allo straniero che risieda da almeno cinque anni nello Stato; 3)
allo straniero che risieda da tre anni nello Stato, abbia reso notevoli servigi
all'Italia o abbia contratto matrimonio con una cittadina dello Stato (2).
Negli Stati Uniti, l'immigrato può
acquistare la cittadinanza se adempie alle seguenti formalità: deve presentare
un certificato comprovante che la sua entrata nel paese è legale, deve
rinunciare alla sua cittadinanza passata, deve aver trascorso nel paese un
periodo di cinque anni e deve dichiarare che intende risiedere permanentemente
negli Stati Uniti.
Molti immigrati italiani trascurano di
naturalizzarsi, così, mentre i loro figli, nati sul suolo americano, sono
cittadini di pieno diritto, essi rimangono sempre degli stranieri.
4. - IL TERRITORIO
Per territorio bisogna intendere quella
porzione della superficie terrestre occupata dalla popolazione dello Stato,
separata e distinta dalle altre porzioni occupate dalle popolazioni degli altri
Stati.
Il termine territorio ha un significato
piuttosto ampio: esso include non soltanto la terraferma, ma anche lo spazio
aereo che sovrasta la terra e il mare territoriale (crediamo inutile aggiungere
che i monti, i laghi e i fiumi sono parte integrante del territorio dello
Stato).
Il mare territoriale è quella fascia
costiera di mare che si estende per 3 miglia marine (5 chilometri e mezzo
circa) dalla linea costiera segnata dalla bassa marea. Altri Stati, tra i
quali l'Italia, la Grecia,
la Yugoslavia,
ecc, estendono questa zona a sei miglia marine. La punta massima è toccata
dalla Russia e da alcuni altri Stati minori che considerano mare territoriale
una fascia di mare dell'ampiezza di 12 miglia marine.
Al di là del mare territoriale vi è il
mare libero, cioè il mare che non appartiene ad alcun Stato e che tutti gli
Stati possono usare per la navigazione, per la pesca, per esperimenti militari,
ecc.
Le navi mercantili, che navigano in mare
aperto, sono considerate territorio dello Stato (1), pertanto tutti gli atti
che si compiono su di esse sono considerati atti compiuti sul territorio dello
Stato a cui appartengono.
5. - IL GOVERNO
L'organizzazione politica della
società richiede l'esistenza di un Governo (2) che
controlli il
funzionamento e il mutamento dell'organizzazione stessa. Esso non deve essere
confuso, come molto spesso si fa, con Io Stato.
Lo Stato è un'entità astratta che sta ad
indicare l'organizzazione presa nella sua interezza, mentre ìl Governo - che ha
forma tangibile e concreta - è, nel suo insieme, l'organo dello Stato.
Col termine Governo si possono indicare sia
quel gruppo di persone (ì Ministri) che sono preposti alla funzione esecutiva,
sia quel complesso dì organi costituzionali - legislativi, esecutivi,
giurisdizionali, - che fanno le leggi e le fanno rispettare.
Questi tre aspetti del Governo saranno
presi ìn esame più avanti, rispettivamente al capitolo X, XI, XII.
6. - SOVRANITÀ O
INDIPENDENZA
Tutti gli studiosi distinguono due tipi
di sovranità: la sovranità interna e la sovranità esterna.
Alla sovranità interna dedicheremo il
prossimo capitolo, qui ci interessa esaminare la sovranità esterna, cioè il
potere supremo dello Stato di determinare la propria politica estera senza
essere soggetto a controlli o limitazioni che non emanino dalla propria
volontà. Usato in questo senso, il termine sovranità può essere sostituito con
quello di indipendenza.
Tutti gli Stati moderni sono Stati
sovrani. Tuttavia ve ne sono alcuni (protettorati, dominions, ecc.) che non
rientrano in questa categoria, perché, pur avendo raggiunto un'autonomia
amministrativa interna, per quanto riguarda i loro rapporti con gli altri
Stati, essi dipendono da una potenza tutelatrice. In realtà essi non possono
essere definiti Stati di pieno diritto, in quanto, sebbene abbiano tutti gli
altri attributi essenziali, quali la popolazione, il territorio, il Governo,
la sovranità interna, ecc. mancano di quella fondamentale: l'indipendenza o
sovranità esterna. Cioè
a dire, essi possono avere rapporti con gli altri Stati solo
attraverso questa potenza tutelatrice, la quale è stata investita del diritto
di determinare la loro politica estera.
Tutti gli Stati possono autoìmporre limitazioni alla propria sovranità,
sottoscrivendo Trattati, Convenzioni internazionali o entrando a far parte di
qualche organizzazione internazionale (1), che abbia come fine «la
composizione, con mezzi pacifici, di tutte quelle dispute tra le nazioni che
possono mettere in pericolo la pace mondiale» (2); oppure entrando a far parte
di una comunità politica più ampia.
Gli Stati dell'Europa Occidentale (Italia.
Belgio, Lussemburgo, Germania, Francia, Olanda. Inghilterra. Grecia.
Portogallo, Spagna) sono avviati verso una progressiva limitazione della loro
sovranità, che scomparirà del tutto quando sarà raggiunta l'unità politica,
sempre che essa avvenga su base federale e non su base confederale (vedi
capitolo V) come alcuni vogliono.
7. - LO STATO E LE
COMUNITÀ INTERMEDIE
Nel capitolo precedente
abbiamo definito lo Stato come l'organizzazione politica della società
nazionale, ora dobbiamo aggiungere che la società nazionale è un sistema di
gruppi od associazioni di cui l'associazione Stato è solo la più importante,
o, come è stato detto, «è l'espressione legale della società, ma non la sola
espressione»3.
Le
comunità intermedie sono costituite da una pluralità di individui che si sono
associati per perseguire un determinato scopo: religioso, economico,
(sindacati e associazioni padronali) culturale, politico, benefico, ecc., e si
diversificano dallo Stato in quanto sono volontarie. Cioè, gli individui che vi
hanno aderito l'hanno fatto per libera scelta e conservano il diritto di
ritirarsene quando lo credono opportuno.
Lo
Stato, invece, è una associazione obbligatoria di cui fanno parte tutti coloro che sono nati nei suoi confini, i
quali non possono ritirarsene se non con l'espatrio.
Un'ulteriore differenza tra lo Stato e le
altre associazioni sta nel fatto che esse sono soggette alla supremazia dello
Stato, sia che esso le abbia create, incoraggiate, tollerate o represse, mentre
lo Stato non è soggetto a nessun altro gruppo organizzato. Esso solo può
legittimamente usare la forza per fare eseguire i suoi ordini.
Ogni associazione, che sia costituita da
una pluralità di individui, ha bisogno
di uno Statuto che prescriva «come essa deve agire e chi deve agire per essa per proteggere gli
interessi comuni e per raggiungere gli scopi fissati» (1).
L'associazione-Stato possiede una Costituzione che regola l'organizzazione
dello Stato: prescrive quali debbono essere i suoi organi e quali debbono
essere i metodi da usare per la scelta delle persone attraverso le quali questi
organi possono esprimersi: fissa i diritti e i doveri dei cittadini, ecc. Ma
questo è un argomento che sarà ripreso ed approfondito più avanti.
Qual è il rapporto tra
l'associazione-Stato e le altre associazioni? Innanzi tutto possiamo affermare
che lo Stato deve rispettare il diritto dei cittadini «ad associarsi
liberamente, senza autorizzazione, per fini che non siano vietati ai singoli
dalla legge penale» (2). Lo Stato, inoltre, non dovrebbe mai interferire negli
affari interni delle associazioni, eccetto in quei casi in cui esse compiano
atti espressamente vietati dal diritto
civile e penale. Lo Stato dovrebbe limitarsi a regolare i rapporti esterni fra
le diverse associazioni e tra le associazioni e gli individui ad esse non
appartenenti. Da parte loro le associazioni dovrebbero darsi uno statuto che garantisca la democraticità
interna e le libertà fondamentali dei loro aderenti.
IL
RAPPORTO TRA LO STATO E LE COMUNITÀ INTERMEDIE
NEGLI
STATI TOTALITARI
Purtroppo dobbiamo dire che i rapporti
tra lo Stato e le altre associazioni non sono sempre stati quelli sopra
indicati. Durante la rivoluzione francese, esse furono vietate o soppresse
perché si riteneva che lo Stato fosse l'unica associazione necessaria alla
natura dell'uomo: le altre, invece, creerebbero, secondo la teoria propugnata
da Rousseau e fatta propria dall'Assemblea Nazionale, dei conflitti di lealtà
(1)
Gli Stati totalitari riconoscono alle
associazioni una funzione utile, ma cercano di farle diventare parte della
macchina del partito, subordinandole ai suoi bisogni ed ai suoi funzionari. Il
fascismo permise l'esistenza di gruppi organizzati, ma nello stesso tempo
proclamò la subordinazione di ogni interesse, sia del singolo come dei gruppi,
agli interessi generali dello Stato, il che voleva dire che essi potevano esistere
solo all'interno delle corporazioni, le quali erano controllate e dirette dal
partito fascista.
La Russia sovietica riconosce ai propri cittadini
«il diritto di unirsi in organizzazioni sociali: sindacati, cooperative,
organizzazioni della; gioventù, organizzazioni sportive e di difesa, società
culturali, tecniche e scientifiche» (2), ma esse sono poste sotto il diretto
controllo del «Partito comunista dell'U.R.S.S., che è 'avanguardia dei
lavoratori ---^'~~ nella lotta
per il consolidamento e lo sviluppo del regime socialista e rappresenta il
nucleo dirigente di tutte le organizzazioni dei lavoratori, tanto sociali che
di Stato>> (3).
9. LO STATO ITALIANO:
DALLO STATUTO ALBERTINO ALLA
COSTITUZIONE REPUBBLICANA
a) - La formazione dello
Stato
L'Italia, prima di essere uno Stato fu
una nazione divisa in tanti staterelli, ognuno dei quali godeva di tutti gli
attributi esclusivi di uno Stato. Fu proprio la maturata coscienza di essere
un'unica nazione che spinse gli italiani, nella prima metà del XIX secolo e nel
primo decennio del secondo, alle lotte insurrezionali e alle guerre regolari
per raggiungere il duplice obiettivo, fortemente sentito dalle coscienze più sensibili,dell'indipendenza
nazionale e dell'unità politica.
Il problema di quale Italia realizzare,
cioè quale struttura dare al nuovo Stato, era stato a lungo oggetto del
dibattito, ideologico e politico, che in quegli anni si svolgeva sullo
smembrato scenario italiano e a cui partecipavano tutte le correnti di
pensiero. I progetti più accreditati, dietro ai quali stavano effettive forze
politiche e sociali, erano due: il primo, di ispirazione neoguelfa e
prefigurato da Vincenzo Gioberti nel suo Primato
civile e morale degli italiani. vagheggiava una federazione di monarchie
sotto la presidenza del papa. Il secondo, il cui apostolo era Giuseppe Mazzini,
aspirava ad una Repubblica unitaria e democratica, la cui struttura era da
definire in un'assemb1ea costituente eletta dal popolo. Ma a questi due
progetti, all'ultimo momento, se ne
aggiunse un terzo, che non era stato prefigurato da nessuno, ma che era
stato imposto dalla realtà di fatto della politica italiana ed europea. Questo nuovo progetto prevedeva
l'aggregazione degli Stati della penisola al Regno di Sardegna, che aveva
fatto del problema dell'indipendenza nazionale la propria bandiera, come aveva
auspicato Cesare Balbo nelle Speranze d'Italia, (1844) e il cui monarca,
Carlo Alberto, aveva concesso ai propri sudditi, nel 1848, in tutta fretta per
la verità, uno Statuto che limitava i suoi poteri di monarca assoluto e apriva
(ma non completamente) le porte del potere politico alla partecipazione popolare
(ma non a tutti, come vedremo).
Quest'ultimo progetto doveva dimostrarsi il
più realistico e su questa base si realizzò l'unità politica della nazione nel
decennio 1860-1870. Gioberti fu il primo a rinunciare, nel 1851, al proprio
progetto,quando Pio IX venne meno alle aspettative dei sostenitori della causa neoguelfa; Mazzini sacrificò il
suo ideale di una Repubblica unitaria e democratica sull'altare dell'esigenza
preminente dell'indipendenza e dell'unità politica della penisola.
Con la formazione del nuovo Stato, l'Italia
cessava di essere «un'espressione geografica» (1), ed entrava nel novero delle
grandi potenze dell'epoca. Ma, all'interno, i problemi che si crearono con
l'unificazione furono molti, cospicui e di difficile soluzione. Se l'Italia
era fatta, restavano da fare gli italiani, come aveva detto D'Azeglio. L'unità
aveva messo a nudo la realtà di un Paese fortemente differenziato
nell'esperienza politico-amministrativa, nell'economia, nelle strutture
sociali, nei livelli d'istruzione e, soprattutto, nella mentalità. Solo geograficamente
e politicamente l'Italia era una. Nelle strutture socioeconomiche, nella
lingua parlata e nelle mentalità, di Italie ce n'erano tante quanti erano gli
stati preunitari.
La sfida che si poneva alla classe
dirigente dell'epoca era quella di avviare a soluzione tutta questa
problematica per raggiungere la vera ed effettiva unità di tutti gli italiani.
Ma essa fallì nel suo compito. Riuscì solo a semplificare il problema,
sacrificando l'Italia più svantaggiata a favore di quella più avvantaggiata,
che poi era quella che aveva voluto e fatto l'unità politica. Così, accanto ad
un'Italia relativamente sviluppata, vi era (e vi è) una Italia depressa e
sottosviluppata: le due Italie, problema post risorgimentale e problema di
oggi.
A1 momento dell'unificazione, la classe
politica aveva davanti a sé, fondamentalmente, tre grandi problemi: 1) - il
problema istituzionale, 2) - il problema sociale e 3) - il problema della
finanza pubblica. Il problema sociale aveva, a sua volta, tre aspetti: 1) -
l'analfabetismo, 2) - il brigantaggio e 3) la questione meridionale. Vediamo
come questi problemi vennero risolti (o non risolti).
b) -La finanza pubblica
Il sistema impositivo e la gestione della
finanza pubblica degli Stati pre-unitari erano molto variegati. In alcuni il
peso fiscale era piuttosto gravoso (come quello del Piemonte, ma facilmente
sopportabile da quella economia), in altri era alquanto lieve (come quello del
Regno delle due Sicilie). In alcuni stati il debito pubblico aveva assunto
proporzioni enormi (come quello del Piemonte), in altri, invece, esso aveva una
dimensione fisiologica.
(1) «Fino
al 1860 il termine Italia serviva a designare non tanto una nazione, quanto una
penisola, e Metternich poteva scrivere in tono di disprezzo di questa
"espressione geografica"». D. MACK SMPI'H: Storia d'Italia 1861-1958.
Bari, 1964, Vol. 1 p. 9.
(2) Al momento dell'unificazione politica,
l'unità tributaria non venne fatta su un sistema che tenesse conto di questa
realtà, ma venne fatta estendendo il sistema Piemontese (escogitato da Cavour
per ancorare il Piemonte al resto d'Europa che stava facendo grandi passi sulla
via dell'industrializzazione e dell'accumulazione capitalistica) a tutta la
penisola. Questa penalizzava quelle regioni, come il Mezzogiorno, che avevano
una economia più debole (1).
Anche l'unificazione del debito pubblico
penalizzava il Mezzogiorno, che di fronte ad un suo debito di 707 milioni si
trovava un debito del Regno Sardo di ben 1482 milioni: era il conto delle spese
per 1'unificazione che veniva finanziato, a posteriori, dalle province
meridionali.
Questo fu l'inizio di una tendenza che
divenne poi una costante nella storia successiva dell'Italia: il drenaggio di
risorse finanziarie dal Mezzogiorno a favore delle zone più sviluppate del
nord, dove nasceva una società industriale; sarà la società contadina del sud
che contribuirà a :finanziare lo sviluppo industriale del nord, facendo così
divaricare ancora più la forbice tra le due Italie: un nord sempre più ricco e
un sud sempre più povero.
Il feticcio della parità
di bilancio, che ossessionava gli uomini della Destra Storica, e la politica
fiscale adottata per ottenerla (2), contribuirono ad aggravare la questione
sociale che sfocerà in quel fenomeno di ribellione armata che, per convenienza
politica, verrà definito «brigantaggio».
c) - Il brigantaggio
Il brigantaggio fu una protesta sociale
contro mali antichi e nuove miserie, su cui si innestò un tentativo politico
antiunitario. Chi non aveva accettato, come definitivo, il nuovo assetto
politico della nazione, aveva tutto l'interesse a sfruttare questa ribellione
armata per raggiungere i propri fini e perciò le fornì uomini e mezzi.
Il fenomeno del
brigantaggio, che interessava vaste aree del Mezzogiorno, era più acuto nelle
aree economicamente più depresse e dove le condizioni di vita del contadino
erano
più disperate, il quale
perciò non aveva nulla da perdere. La terra era posseduta a latifondo o a
manomorta e le altre opportunità di lavoro erano non esistenti.
Che alla base di questa ribellione ci
fossero delle motivazioni sociali era perfettamente noto al Governo e alla
classe politica che sedeva in parlamento (1). Ma invece di affrontarla e
vincerla con misure politico-sociali, quali la riforma agraria e un vasto
programma di lavori pubblici (2), si preferì combatterla e vincerla col piombo
e la legge marziale.
Nel 1865 il brigantaggio fu domato, ma con
un numero di morti che superava quello complessivo delle guerre e delle
rivoluzioni del Risorgimento, come calcolò Giustino Fortunato, e con una
profonda ferita sul tessuto sociale e nazionale. I regolari
"piemontesi" erano venuti a combattere i loro fratelli
"cafoni" e si trovarono di fronte ad una realtà territoriale e
sociale allucinante: i "cafoni" era gente che era stata punita da Dio
e dagli uomini «... senza terra, senza danaro, spesso senza casa dove vivere e
senza cimiteri, falcidiati da malaria, dalla pellagra, dalla mortalità
infantile, tra cui l'analfabetismo toccava punte del 90°70...»(3).
d)L'analfabetismo
Dal censimento del 1861 risultò che gli
italiani erano circa ventitre milioni. Di questi, il 75% era analfabeta e il
12/13% o era semianalfabeta e solo il 10112% sapeva leggere e scrivere
correttamente. Questa spauosa realtà avrebbe richiesto un massiccio intervento
dello Stato a favore di un serio programma d'istruzione pubblica, invece ci si
limitò ad
estendere la legge Casati
del 1859 a
tutte il territorio nazionale.
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(1) Cfr. La relazione
parlamentare di Giuseppe Massari e G. Castagnola del 1863.
(2) «Almeno per tutto il
primo quinquennio post unitario le spese di carattere economico, in
particolare quelle per i lavori pubblici, occuparono un posto relativamente
esiguo nella graduatoria della spesa statale caratterizzata piuttosto dalla
fortissima prevalenza (fino al 60 per cento) degli oneri per l'amministrazione
centrale e per il pagamento degli interessi sul debito pubblico, e da un
livello abbastanza elevato (pari in media al 24% degli stanziamenti per la
"organizzazione" dell'esercito». VALERIO CASTRONOVO: Loc. Cit. p. 28.
(3) LEONE BARTONE: Loc.
Cit. pp. 203/204.
Con
questa legge si istituiva la scuola elementare e, poiché se ne affidava la
gestione ai Comuni, che dovevano provvedere con mezzi propri, essa rimase
sulla carta. Questo fu il primo inganno perpetrato ai danni dell'Italia più
svantaggiata. I comuni più poveri, quasi tutti apartenenti al Mezzogiorno, non
ebbero la possibilità di istituirla. In altri comuni, la sua istituzione venne
negata dalla stessa classe dirigente che non condivideva l'estensione
dell'istruzione alla massa dei conta
Nel 1877, con la legge Coppino, venne
sancito l'obbligo scolastico, ma la situazione non mutò di molto, perché, oltre
alla perduranza dei fenomeni già esposti, chi aveva sempre vissuto
nell'ignoranza, esaurendo tutto il ciclo della sua esistenza nel duro lavoro
dei campi, rifiutava la scuola (e questa sarà una piaga che accompagnerà tutta
la storia del Mezzogiorno fino ai nostri giorni) perché non ne percepiva
l’utilità ed i benefici che ne sarebbero potuti derivare alla propria condizione
sociale, ma anche perché la filosofia della cultura analfabeta, che si
tramandava attraverso le generazioni, voleva che la scuola fosse fatta “per chi
ha la testa buona, e la voglia»(2), cioè i ceti più evoluti. Tuttavia, questa
era solo una parte, anche se estesa e diffusa, del problema. L'altra parte era
che le colpe dello Stato erano gravissime, in quanto non aveva fatto nulla per
rendere effettivo l'esercizio di questo diritto_dovere da parte di tutta la
popolazione.
I veri beneficiari furono i ceti più
evoluti dei centri urbani. Nelle zone rurali del Mezzogiorno, dove il morso
della miseria era più acuto, l’evasione restò altissima e lo rimarrà fino agli
anni-50 del nostro secolo, lo, mentre nel nord essa scendeva rapidamente. Così
la distanza tra le due Italie, invece di ridursi, si ampliava sempre più.
Sul finire del secolo,
con la legge Daneo-Credaro, si venne in aiuto ai comuni, sgravandoli,
parzialmente, dalle spese di gestione delle scuole, ma chi ne beneficiò di più
furono i comuni più ricchi.
Nel
1911 gli analfabeti nel Nord scendevano al 15%, mentre nel Mezzogiorno erano il
59% della popolazione. Né la situazione migliorò di molto con la riforma
Gentile del 1923, quando lo Stato sollevò i comuni dall'onere della scuola
elementare, immettendo nei propri ruoli il personale docente e non docente e
direttivo.
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(1) Naturalmente questa
legge riordinava tutto il sistema scolastico italiano.
(2) Questo il non tanto
sorprendente risultato dì una ricerca effettuata nel campo da G. Harrison e M.
Callari Galli nella Sicilia odierna.
Nel 1931 il Nord aveva
raggiunto quasi (5 per cento) la completa alfabetizzazione, mentre al Sud gli
analfabeti rimanevano ancora sopra il 40 per cento. Questa cifra, tuttavia,
nascondeva una realtà diversificata. Le zone urbane avevano raggiunto un buon
grado di alfabetizzazione, mentre l'analfabetismo rimaneva elevato nelle zone
rurali. Nel 1951, più di un quarto della popolazione del Mezzogiorno non
sapeva leggere e scrivere. Né le cose cambiarono di molto dopo la riforma dei programmi
della scuola elementare del 1955.
L'evasione dell'obbligo era e rimaneva la piaga ormai
cronica del Mezzogiorno.
Nel 1962, infine, l'obbligo scolastico
venne esteso fino a 14 anni, attuando - 14 anni dopo la sua entrata in vigore -
l'art. 34 della costituzione e si istituì la Scuola Media unica
che soppiantava la vecchia scuola media, a cui si accedeva per esami, era
fortemente selettiva e apriva le porte all'istruzione superiore, e la scuola di
avviamento professionale, a cui si accedeva senza esami ed era riservata alle
classi subalterne per l'avviamento al lavoro.
La Scuola Media unica fu salutata come la più grande
rivoluzione sociale dell'Italia unita. In effetti essa abolì l'anacronistica
distinzione di classe tra i cittadini e pose le premesse per una effettiva
estensione dei livelli d'istruzione, in quanto essa fu accompagnata da una
serie di provvedimenti, sanciti dalle leggi regionali sul diritto allo studio,
che ne resero effettiva la frequenza.
e) La questione meridionale
Sgombriamo il campo da un equivoco: la
questione meridionale, cioè il divario fra Nord e Sud, non fu creata dalla
classe dirigente che governò l'Italia dopo l'unità. Essa era preesistente alla
unificazione, non come questione meridionale, perché una tale questione non
esisteva, e non poteva esistere, essendo il meridione un regno sovrano ed indipendente,
il quale, tuttavia, era un'area sottosviluppata rispetto agli altri Stati
centro settentrionali. Ma questa era una questione che riguardava solo se
stesso. Divenne, invece. una questione dell'Italia al momento
dell'unificazione.
Se vogliamo, quindi, la questione
meridionale non fu creata, ma nacque con l'unificazione. Di questo, tuttavia,
nessuno era cosciente (e difatti se ne prenderà coscienza solo più tardi). Anzi
si riteneva, con una fortissima dose di ottimismo, che il sottosviluppo del sud
era stato creato dalla pessima amministrazione dei Borboni, ma, una volta
eliminata la causa, si eliminava anche l'effetto. Cosa che non avvenne, perché
il sottosviluppo era strutturale: ecco 1'errore della classe dirigente
post-unitaria.
Le economie, le condizioni sociali e lo
stesso territorio tra le due aree geografiche presentavano profonde differenze.
Il nord, nel suo insieme, aveva sviluppato un'economia precapitalistica fondata
su una produzione artigianale, una agricoltura evoluta e limitate aree di
un nascente industrialismo; mentre
l'economia del sud era fondata su
qualche rarissima industria (opificio), su un'agricoltura cerealicola estensiva,
in cui predominava il latifondo e sulla pastorizia. Il nord era inserito in un mercato di dimensioni europee,
anche se ne rappresentava l'area più povera; il sud, invece, era chiuso entro
i suoi confini con un mercato povero e limitato.
Il nord aveva un territorio aperto, con
ampie pianure, una certa disponibilità di energia idraulica e una più o meno
adeguata rete di infrastrutture di base; il territorio del sud, era chiuso, con
rari fazzoletti di pianure, infestati dalla malaria, un'assenza totale di fonti di energie e di
infrastrutture di base. Al nord esisteva, o era in via di accellerata
formazione, una mentalità imprenditoriale, che applicava metodi di conduzione
delle aziende basati sul profitto; nel sud, invece, sussisteva ancora una
mentalità parassitaria e di sfruttamento basata sulla rendita.
Queste erano le condizioni di partenza
delle due aree geografiche. Le colpe, se di colpe si può parlare, della classe
dirigente dell'epoca (1), sono da ravvisare nel fatto che non seppe capire i
reali termini del problema e quindi impostare una politica
economica-finanziaria intesa a colmare il solco tra queste due realtà anzi le
politiche che adottò raggiunsero l'effetto contrario. La politica liberista
piemontese, che essa estese al resto dell'Italia, anche se trovava una
giustificazione nell'esigenza di inserire l'Italia nel contesto delle potenze
europee e favorire le esportazioni agricole, ebbe l'effetto di far sparire dal
mercato quelle rarissime industrie esistenti nel Mezzogiorno, perché esse, che
erano sempre vissute all'ombra di una rigida politica protezionistica, non
erano in grado di reggere alla più agguerrita concorrenza non solo delle
industrie europee, ma neanche di quelle esistenti nel nord della penisola, le
quali, abolite le dogane interne, si mossero alla conquista dei mercati del
sud.
La politica di unificazione del debito
pubblico, anche se aveva fatto inorgoglire Giustino Fortunato perché «nessuna
rivoluzione politica fu mai compiuta al mondo più onestamente della nostra»,
si era risolta in un drenaggio di risorse dal Mezzogiorno, che contribuiva
così a finanziare, a posteriore, le spese del Piemonte (e non solo quelle sostenute
per l'unificazione, ma anche quelle sostenute per ammodernare lo Stato sabaudo),
il cui debito era il doppio di quello di tutti gli altri Stati messi assieme.
La politica di privilegiare la tassazione
indiretta distribuiva iniquamente il carico fiscale, facendolo ricadere più
pesantemente sulle classi più povere e sulle regioni dove la miseria era più
diffusa, cioè il Mezzogiorno.
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(1) «Rimproverarle di non
aver agito diversamente e di non essersi ispiratata a formule politiche ed
economiche che le erano ignote o estranee, significa fare la storia a ritroso,
col senno del poi>. SERGIO ROMANO: Storia d'Italia, dal Risorgimento, ai
giorni nostri. Milano, 1977, n. 65.
La politica di addossare l'onere
dell'istruzione elementare ai Comuni penalizzava le aree depresse (la quasi
totalità del Mezzogiorno), i cui comuni si trovarono nell'impossibilità di
istituirla.
Per
colmare il divario sarebbe stata necessaria una politica del territorio (1); un
forte programma di lavori pubblici, delle leggi speciali per proteggere la
nascente industria, sgravi fiscali per le categorie più povere e
una riforma agraria (2), ma, soprattutto, sarebbe stato necessario che la
classe dirigente ne fosse cosciente e non fosse distratta dall'immane compito
che le stava davanti: la costruzione di uno Stato e il suo completamento territoriale.
La coscienza dell'esistenza di una questione
meridionale maturò negli anni 70, quando una classe di intellettuali incominciò
ad agitare il problema attraverso una serie di interventi sulla stampa
nazionale. Ma la reale dimensione della questione sfuggiva anche a loro.
Infatti, essi chiedevano, non il totale
sovvertimento della politica del governo
a favore del sud più
svantaggiato, ma solo piccoli ritocchi che non avrebbero mutato nulla.
La gravità del problema venne alla luce, in
modo definitivo, sul finiire del secolo, quando l'Italia settentrionale era
interessata ad un accellerato processo di industrializzazione, da cui il
Mezzogiorno fu irridiabilmente escluso. Il capitale straniero, ma anche quello
italiano, trovava più conveniente investire al nord che offriva più economie
esterne.
Nei primi anni del XX secolo, per la prima volta, la
questione entrò in parlamento e divenne la «questione italiana», ma divenne
anche, per una certa cultura, la «palla di piombo al piede dell'Italia». I
governi incominciarono ad inserirla nelle enunciazioni politiche, ma i programmi
di intervento furono scarsi: una centrale elettrica sul Volturno, uno
stabilimento siderurgico a Bagnoli, presso Napoli, un acquedotto nelle Puglie,
che, iniziato nel 1905, fu completato nel 1927 e altre poche iniziative non
collegate tra di loro e quindi di scarsissima efficacia.
La valvola di sfogo della incapacità dei governi ad
avviare a soluzione il problema divenne l'emigrazione, che fu massiccia: una
vera migrazione di popolo.
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(1) Giustino Fortunato
parlò del Meridione come di «un sfasciume pendulo sul mare”.
(2) La mancata attuazione
di quest'ultima fece dire a Granisci che la questione meridionale è «la mancata
rivoluzione agricola».
Il governo fascista, che nella sua ricerca
eufemistica aveva fatto diventare l'«emigrato», termine troppo infamante per
l'immagine di grandezza che voleva inculcare alle masse interne, il «lavoratore
italiano all'estero», con il suo programma di rinnovamento industriale, dopo
il grande crack del 1929, tutto incentrato al nord, con la sua politica del
territorio, con la sua politica autarchica e le sue battaglie per il grano,
lasciò il Mezzogiorno nella sua atavica arretratezza.
Dopo un secolo di unità, lo squilibrio tra
Nord e Sud, invece di colmarsi, si era fortemente aggravato. Se nel 1861
questo squilibrio ammontava al 15/20 per cento, nei primi decenni del secolo
XX era salito a150 per cento per arrivare al 60 per cento alla fine della
seconda guerra mondiale.
Con la costituzione dello Stato
repubblicano si ebbe una svolta nell'atteggiamento del Governo verso la questione
meridionale. Nel 1950 fu istituita la
Cassa per il Mezzogiorno che doveva fornire un intervento
aggiuntivo a quello dello Stato.
Il suo compito, che assolse, era quello di
creare le infrastrutture di base: strade, ponti, dighe, acquedotti, reti
fognanti. Successivamente, con una politica di incentivi, ci si prefisse di
creare dei «poli» di sviluppo industriale che avrebbero dovuto fare da volano
a tutta l'economia meridionale, ma questa politica non diede i frutti sperati
per una serie di motivi, ma soprattutto perché essi non riuscirono a creare
attorno a sé quella miriade di attività indotte che sono il tessuto connettivo
indispensabile di ogni sviluppo industriale.
Il «big push», la grande spinta,
all'industrializzazione degli anni 60, si è così risolto nella creazione di
quelle che sono state definite, di volta in volta, «le cattedrali nel deserto»,
«gli elefanti bianchi», «i grandi scheletri dello sviluppo» e «i monumenti di
archeologia industriale». Dopo la spinta vennero gli anni del rallentamento
(anni 70) e della crisi attuale, che, con l'abolizione della Cassa per il
Mezzogiorno, dovrebbe rappresentare il momento di un nuovo e più efficace
intervento per creare nel Mezzogiorno, se veramente si vuole uscire da questo
problema, una economia autopropulsiva.
Dopo più di un secolo di storia, la
questione meridionale è ancora irrisolta. Tuttavia, anche se il Mezzogiorno
rimane ancora, in gran parte, un'area assistita, i progressi sono innegabili.
L'isolamento territoriale è stato risolto grazie ad una fitta rete di
autostrade, superstrade e al raddoppiamento del binario ferroviario.
L'agricoltura ha fortemente rinnovato le sue tecniche di conduzione. La
presenza di un processo di sviluppo industriale, anche se deficitario, ha
creato una nuova mentalità imprenditoriale. I livelli d'istruzione sono
fortemente migliorati. Si è scoperta una vocazione turistica. Si sono create
quelle infrastrutture di base che costituiscono il nerbo delle economie esterne.
Si sono create, anche, gli istituti di credito specializzati per i finanziamenti
a medio e lungo termine. In breve, si sono create, o quasi, tutte le condizioni
per uno sviluppo non drogato ed eterodiretto.
f) il problema
istituzionale
Messa da parte definitivamente l'idea di una
Italia federata, tutti accettarono l'assetto monarchico unitario che era uscito
dalle guerre dipendenza, ma non tutti erano d'accordo nell'accettare, sic et
simpliciter, l'estensione dell'ordinamento piemontese all'Italia unita. Mazzini
ed i democratici avevano sempre sostenuto che il futuro ordinamento
dell'Italia, tenendo fermo l'assetto monarchico, che era, ormai, fuori
discussione, dovesse uscire da un'Assemblea Costituente eletta dal popolo. E
questa stessa richiesta era stata avanzata, con una legge, anche dal Governo
provvisorio delle Province Lombarde, all'indomani delle vittoriose cinque
giornate di Milano e dal Governo provvisorio della Toscana, dopo la fuga del
granduca. Di questo punto i democratici ne facevano una questione irrinunciabile
e di fondo. Le Province Lombarde, in effetti, decisero l'annessione al Regno
di Sardegna solo dopo che il parlamento sabaudo aveva approvato una legge che
prevedeva l'elezione di un'Assemblea costituente ad unificazione avvenuta. Ma
essa non fu mai convocata, né eletta, perché, nell'euforia della vittoria,
essa perse la sua forza originaria e con essa perse anche la motivazione
democratica che l'aveva sorretta.
Questo non impedi che si aprisse un lungo
dibattito, tra i contemporanei, per determinare se la struttura del nuovo
Stato dovesse essere centralizzata, come la struttura del Regno di Sardegna, o
regionalistica, con ampie autonomie locali, per valorizzare l'esperienza
storica degli antichi Stati italiani, alcuni dei quali avevano avuto delle
amministrazioni efficienti.
La tesi della centralizzazione prevalse ed
essa fu sancita per legge nel 1861 e riconfermata nel 1865. Così 1'ordinamento
piemontese, che aveva subito un forte influsso del vicino ordinamento francese,
venne esteso a tutta la penisola. Ma la storia si incaricherà di dimostrare che
la tesi regionalistica doveva ritornare ed avere uno sviluppo diverso in uno
Stato. quello Repubblicano dei nostri giorni, che attraverso 1'ístituto
regionale allargherà la partecipazione democratica alla gestione della cosa
pubblica.
Questo ordinamento prevedeva la
divisione del territorio nazionale in Comuni e province. I Comuni erano
amministrati dal Sindaco, di nomina regia, e da un Consiglio. Le province,
costituite da un gruppo di comuni, erano amministrate dalla giunta provinciale
e controllate dal prefetto, anche questo di nomina regia. Naturalmente non
mancò chi, non solo tra i contemporanei, ma anche tra gli storici successivi,
gridò alla piemontesìzzazione dell'Italia: non era un nuovo Stato che nasceva,
ma era uno vecchio che si ingrandiva.
In effetti, degli ideali dei democratici
del risorgimento si era realizzato solo quello dell'indipenza e dell'unità
nazionale. Nessuno metteva in dubbio che la monarchia sabauda si fosse
guadagnato nel campo il titolo per essere la monarchia di tutti gli italiani.
Ma si voleva che questa monarchia fosse limitata da una costituzione approvata
da tutto il popolo attraverso propri rappresentanti eletti ad una Assemblea Costituente.
Invece, al nuovo Stato venne esteso lo Statuto che la monarchia sabauda si era
dato, in tutta fretta. nel 1848 e che si era impegnata a rispettare. Il popolo
non c'entrava. anche se veniva dichiarato, modificando le formule del passato,
che il re era tale «per grazia di Dio e volontà della nazione».
Questo Statuto faceva dell'Italia una
monarchia costituzionale pura, ma non uno Stato democratico. Gli elementi di
democrazia, nello Statuto, erano limitati. Il diritto al voto veniva concesso,
in base alla legge elettorale prevista dallo Statuto, solo a1 2,5 per cento
della popolazione, cioè solo a quella parte che, oltre al requisito dell'età,
possedeva il requisito del censo (che variava su basi geografiche) o quello
della «capacità» (coloro ì quali occupavano una certa posizione sociale,
rigidamente determinata).
Il re rimaneva la figura predomìnante,
nell'esercizio del potere. Partecipava, assieme alle due camere, alla funzione
legislativa; sanzionava le leggi, le quali non avevano valore senza tale
sanzione; era investito del potere esecutivo; i ministri erano di sua scelta e
conservavano tale carica finché godevano del suo favore; nominava i senatori
ed i giudici, che amministravano la giustizia in suo nome; poteva sciogliere
l'unica camera elettiva, quella dei Deputati; e, infine, non era responsabile
per gli atti di governo.
Lo Statuto Albertino, tuttavia, aveva una
qualità (nella esperienza storica successiva si dimostrerà un grosso difetto)
che lo rendeva facilmente adattabile alle nuove realtà che andavano maturando:
era breve e flessibile. Cioè conteneva un numero limitato di articoli che, non
ponendo limiti invalicabili, e criteri-guida rigidi dai quali fosse impossibile
derogare, lasciavano molto spazio alla interpretazione di chi lo gestiva e alla
prassi, ed era facilmente modificabile, bastava una legge per farlo.
Negli anni immediatamente successivi
all'unità, la prassi era quella di un progressivo ritiro del re dalla scena
politica e un progressivo ampliamento dei poteri del parlamento, specialmente
della camera elettiva, in sintonia con quanto accadeva negli altri Stati
democratici.
Sempre più spesso il re non presiedeva le
riunioni dell'Esecutivo e suo posto veniva preso dal primo ministro. Alla fine
questa diventò una prassi consolidata. I ministri, anche se formalmente
rimanevano responsabili verso la corona che li nominava e li licenziava, nella
prassi essi rimanevano in carica solo e fin tanto che godevano la fiducia del
parlamento.
Ben presto il Governo acquistò una propria
autonomia politica che gestiva per controllare la Camera dei deputati ed
influenzare la composizione del Senato. I senatori, anche se di nomina regia,
venivano designati dal governo per crearsi una maggioranza anche in quella
caamera. Lentamente, ma progressivamente, si andava realizzando la formula
degli Stati democratici moderni, secondo la quale «il re regna, ma non governa». Nella sostanza l'Italia, negli anni, era
diventata una monarchia costituzionale parlamentare, anche se nella forma e
nella lettera dello Statuto rimaneva una monarchia costituzionale pura.
Questa divaricazione tra forma e sostanza,
tra lettera dello Statuto e prassi politica doveva dimostrarsi micidiale per la
nascente democrazia italiana.
Il governo, come si era venuto
configurando, era un organo costituzionalmente anomalo in quanto non previsto.
Secondo la lettera dello Statuto il potere esecutivo apparteneva al re che lo
esercitava per fare la propria politica, sulla quale non era responsabile verso
nessuno. La responsabilità parlamentare, come si era venuta determinando, era
anch'essa anomala. In base allo Statuto, il parlamento partecipava solo alla
funzione legislativa.
In sostanza, all'ombra dello Statuto
potevano crescere nuovi organi istituzionali e sorgere nuove funzioni per
vecchi ordini. E questo in senso positivo, come in senso negativo. In senso
positivo questo servì per limitare ulteriormente i poteri del re e conquistare
nuovi spazi alla democrazia. In senso negativo servirà al fascismo per negare
gli istituti democratici e parlamentari e per stabilire un governo personale
ed assoluto.
Così, lo Statuto
Albertino, come non era stato un ostacolo alla crescita democratica dello
Stato, non sarà un ostacolo alla morte violenta dello Stato liberale, quando il
fascismo ne decreterà la fine. Il parlamento verrà esautorato e al suo posto
sarà, nel 1939, istituita la
Camera dei Fasci e delle Corporazioni; i partiti politici,
che erano sorti sul finire del secolo, verranno aboliti; le elezioni si
svolgeranno su una lista unica preparata dal Gran Consiglio del Fascismo; le
libertà democratiche, così faticosamente conquistate, verranno negate;
l'esecutivo diventerà l'esecutore della volontà personale del Duce e il Capo del
Governo, la cui figura verrà istituzionalizzata per legge (1925), sarà responsabile
solo verso il sovrano, ma solo formalmente (1). E tutto questo sempre all'ombra
dello Statuto, che rimarrà formalmente in vigore e che
troverà una nuova
e
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(1) Per ulteriori
considerazioni sulla dittatura fascista vedi Cap. IV.
limitata (nel tempo)
applicazione negli anni finali della seconda guerra mondiale, quando il re,
dopo che Mussolini sarà messo in minoranza, il 25 luglio 1943, dal Gran
Consiglio del Fascismo, effettuerà un colpo di stato legislativo e si
riapproprierà del potere esecutivo, nominando il generale Pietro Badoglio Capo
del Governo. Ma ormai la sorte dello Statuto sarà segnata, e, con esso, quella
della monarchia. In quegli anni cruciali della storia italiana, il popolo prese
le armi per liberarsi dei residui di una dittatura che si era imposta alla
nazione grazie alla debolezza di un monarca che non si era saputo dimostrare
garante della legalità democratica, come essa si era venuta sviluppando dai
giorni dell'unità, e per liberarsi di uno straniero invasore, che teneva in
vita, con la forza del proprio esercito, il governo fantoccio Repubblichino,
per giustificare la propria presenza nel suolo italiano e tenere lontano dalle
proprie frontiere il fronte della guerra. Questo moto di popolo in arme pose le
premesse affinché l'Italia fosse rifondata su nuove e più solide basi, a
cominciare dall'assetto istituzionale.
Le
forze politiche uscite dalla Resistenza chiesero, all'unanimità, che fosse
il popolo a decidere, mediante
referendum, la forma istituzionale dello Stato: monarchia o repubblica. Se
durante il Risorgimento la monarchia si era conquistata delle benemerenze che
l'avevano fatta accettare da tutti, nella storia successiva, e specialmente nel
ventennio fascista, si era discreditata e aveva perso qualsiasi credibilità,
anche se, per salvare il salvabile, il vecchio re Vittorio Emanuele III, abdicò
a favore del figlio Umberto.
La Repubblica era il vecchio ideale dei democratici
risorgimentali che ritornava. Come
ritornava il vecchio ideale di Giuseppe Mazzini, e degli altri democratici,
di un'Assemblea Costituente, eletta dal popolo, che desse alla nazione la carta
fondamentale del suo ordinamento.
Le elezioni per l'Assemblea Costituente e
il referendum istituzionale si tennero i12 giugno 1946 e dalle urne uscì una
maggioranza a favore della della repubblica che ebbe, come capo provvisorio,
Enrico De Nicola. L'Assemblea Costituente terminò i suoi lavori il 22 dicembre
1947, quando approvò la nuova
Costituzione dello Stato italiano, che entrò in vigore il 1 Gennaio 1948: a
cent'anni esatti dalla promulgazione dello Statuto Albertino. Con questo atto
si concludeva un periodo della storia italiana e se ne apriva un altro fondato,
a contrario del primo, su scelte chiare e precise, frutto di un lungo
dibattito tra tutte le forze sociali e politiche che avevano partecipato alla
Resistenza.
Il costituente aveva fatto tesoro
dell'esperienza del passato e la costituzione che dava all'Italia accoglieva
quel principio regionalistico dello Stato, che invano i democratici del
risorgimento avevano proposto al momento dell'unificazione, ed era, nella sua
forma, il contrario dello Statuto Albertino: lunga e rigida, come quello era
stato breve e flessibile. Lunga perché, oltre a delineare con precisione
l'ordinamento ei vari poteri dello Stato, articola i diritti individuali in un
più ampio sistema di diritti collettivi. Rigida perché la procedura per una sua
eventuale modifica è estremamente difficoltosa e questo per evitare che sia
alla mercé dei detentori del potere, come lo era stato lo Statuto. La sua
rigidità, tuttavia, non può ritenersi un elemento completamente positivo.
Quando le mutate condizioni socio-economiche e le nuove esperienze storiche
richiedono, come è il caso dell'Italia attuale, un suo aggiornamento per
rendere più funzionale tutto il sistema, si rischia l'appesantimento di tutta
la macchina dello Stato, se non si trovano quelle maggioranze qualificate e
non si riescono ad attivare tutte quelle procedure che essa prevede per la sua
modifica.
Le Costituzioni, rigide o flessibili che
siano, non sono un intralcio per chi voglia stabilire un governo autoritario,
come la storia insegna. La loro osservanza o meno non è legata alla loro forma
e alle clausole che contengono, ma alla volontà politica e alla maturità
democratica delle forze che interagiscono nello Stato. La Gran Bretagna non ha
mai avuto, tranne che in un brevissimo periodo della sua storia (nel XVI secolo),
una costituzione scritta. La sua carta fondamentale è fatta da una serie di
leggi, approvate in secoli diversi, di alcune dichiarazioni memorabili,
anch'esse provenienti da secoli diversi, e dai precedenti, eppure essa non ha
mai corso il rischio di vedere il proprio ordinamento stravolto da un governo
autoritario e questo perché i principi democratici su cui si regge, frutto di
una plurisecolare esperienza, sono talmente interiorizzati dal singolo
cittadino da rendere impossibile qualsiasi avventura totalitaria o autoritaria.
SPUNTI PER LA DISCUSSIONE IN
CLASSE
1)
La
Germania e l’Italia raggiunsero la forma di Stato nello
stesso periodo e per ultimi nel contesto degli Stati europei. Prima di
diventare degli Stati, essi avevano una struttura politica molto simile, ma al
momento della creazione del nuovo Stato scelsero due soluzioni differenti:
federale la Germania
e unitaria l’Italia. Perché in Germania fu possibile realizzare la soluzione
che in un primo momento era stata preconizzata anche per l’Italia, ma poi fu
scartata?
2)
L’Italia odierna ha una debolezza economica di natural strutturale,
rispetto agli altri Stati più avanzati. Perché è più difficile eliminare gli
squilibri di natura strutturale?
3)
Il fenomeno del brigantaggio è una chiara
dimostrazione che la storia si può scrivere da più angoli visuali. Sotto la
monarchia sabauda esso fu definito un fenomeno di bande armate che si erano
date alla macchia per attentare ai beni e alla vita delle persone. Sotto
l’Italia repubblicana esso ha assunto la giusta connotazione di una protesta
sociale di gente spinta alla disperazione. Secondo te l’obiettività storica o
ogni gente, ogni nazione si scrive la storia a proprio uso e consumo (vedi la
storia scritta dall’Austria e dall’Italia sulle guerre d’indipendenza, quella della Germania e degli altri Stati europei sulla 1^ Guerra
Mondiale)?
4)
Gli americani sostengono che il “sapere è potere”. Studi recenti
hanno dimostrato che i livelli di istruzione incidono sul prodotto nazionale
con una percentuale che va dal 3 al 5 per cento. Perché secondo te la
conoscenza (sapere) rende economicamente più ricca una nazione?
5)
Il mancato decollo dell’industrializzazione del Sud viene, molto
spesso, attribuito anche alla totale assenza di economie esterne. Perché le
aree che non offrono economie esterne trovano più difficoltà all’insediamento
industriale?
6)
La struttura della disoccupazione giovanile italiana è dualistica.
Al Sud è prevalentemente intellettuale, come si spiega questo fenomeno?
7)
L’avventi della Repubblica segna la rottura della
continuatà storica dello Stato italiano. Essa segna la fine di un periodo e
l’inizio di un altro. Perché queste rottura avvengono
sempre in forma traumatica (vedi la storia della Francia per esempio)?
8)
Il sociologo americano Edward Bonfield, in una ricerca condotta sul
posto nel 1950, affermò che alla base della questione meridionale c’era
l’incapacità politica e sociale dei suoi abitanti. Egli chiamo questo
atteggiamento mentale “familismo amorale” perché basato esclusivamente a
soddisfare il proprio immediato interesse e perché legato ad un modo di vivere
privo di qualsiasi rapporto sociale. Questa analisi ti sembra convincente o
questo “familismo amorale” è solo la conseguenza della secolare
contrapposizione tra uno Stato che imponeva solo doveri e il cittadino che
doveva frodarlo e perciò si ribchiudeva nel proprio “particolare” (per dirla
con Guicciardini)?